Chi ha tempo non aspetti tempo
Vi capita spesso di rimandare impegni importanti, commissioni, compiti o attività che richiederebbero solo pochi minuti? Vorreste cominciare una dieta, fare un po’ di esercizio fisico o impegnarvi a cambiare abitudini non salutari, ma poi non riuscite mai a trovare il momento per farlo? Vi ripromettete di mettere ordine sulla vostra scrivania, nei cassetti, negli armadi, ma continuate a procrastinare? Se vi riconoscete in una o più di queste situazioni, il vostro punto debole si chiama procrastinazione, ovvero la tendenza massiva, generale o settoriale, a rinviare al domani.
Il costante rimandare le cose da fare può diventare fonte di stress e mina il personale senso di autostima, facendo sentire la persona incapace e disorganizzata. Ci si sente in ansia o anche in colpa perché non si riesce ad imporsi di fare ciò che ci si è prefissati. Si prova una sensazione di sopraffazione ed impotenza dinanzi ad un’inerzia che sembra inspiegabile.
La tendenza a procrastinare, pervasiva od occasionale, può costare caro in quanto può impedire di raggiungere i propri obiettivi, generando un senso di frustrazione, inadeguatezza ed inefficacia.
Procrastinare richiede un notevole impiego di tempo, energia ed emotività che vengono dispersi crogiolandosi nel senso di colpa per aver rimandato quel che c’era da fare e che, se portato a termine, avrebbe richiesto molto meno tempo e minori energie di quanto temuto.
Le ragioni dell’indugio
La tendenza a rinviare non è un aspetto innato della nostra personalità o del carattere. È un’abitudine, un atteggiamento che, in quanto tale, può essere modificato. Da dove deriva questa tendenza che immobilizza la persona ed accresce il suo senso di disagio? Le motivazioni possono essere molteplici, ma tutte sono riconducibili al sentimento della paura.
Le paure che ci bloccano
Dietro la tendenza a rinviare si nasconde il desiderio di sottrarsi ad un compito, semplice o complesso che sia, in relazione ad una o più paure personali.
- PAURA DI NON ESSERE PERFETTI
Timore inconscio di non riuscire a realizzare un buon prodotto se non si è nelle condizioni ottimali per farlo, pertanto si attende di essere nel giusto stato d’animo, di avere la giusta quantità di tempo a disposizione, ovvero di essere nelle migliori condizioni possibili.
- PAURA DELL’IGNOTO
E’ la paura più comune. Si continua a rimandare una decisione od un’azione perché si sperimenta una sorta di sicurezza e conforto nel permanere all’interno della situazione nota in cui si vive, anche se dolorosa o difficoltosa.
- PAURA DEI GIUDIZI
Si rimanda il perseguimento di obiettivi importanti poiché si teme di essere giudicati negativamente dagli altri.
- PAURA DI COMMETTERE ERRORI
Si evita di affrontare un compito in modo da non doversi misurare con possibili personali errori, non riconoscendo nello sbaglio la potente valenza di apprendimento.
- PAURA DEL SUCCESSO
È una delle cause più sottili della procrastinazione. Le sue radici affondano in domande importanti per la vita dell’individuo. Si teme che il successo possa cambiare determinati aspetti dell’immagine di sé e della propria vita, che si vorrebbero invece salvaguardare.
- PAURA DI DOVER VIVERE AD ALTI LIVELLI
Variazione della precedente, tale paura subentra quando si ottiene un grande successo nel fare qualcosa di nuovo. Corrisponde al timore di dover dimostrare, dopo un successo, di rendere sempre ai massimi livelli.
- PAURA DEL CAMBIAMENTO
È un’apprensione naturale, ma portata agli estremi. I cambiamenti sono una delle maggiori fonti di stress e molte persone possono preferire di rinunciarvi, evitando di progredire nella vita con la speranza di eludere il terrore del cambiamento.
- PAURA DELLE TROPPE RESPONSABILITA’
Una delle maggiori paure che frenano le persone dal dare il meglio di sé. Suscita il timore di essere sopraffatti dai compiti e di perdere il controllo della loro gestione.
- PAURA DEI SENTIMENTI
Si tratta del timore di sentimenti non presenti ma futuri, ovvero di come potremmo sentirci intraprendendo una determinata azione. In tal caso, rimandare qualcosa viene percepito come soluzione per evitare di provare sentimenti negativi, come rabbia, senso di colpa ecc…
- PAURA DI FINIRE
Tale paura è legata sia al timore che, una volta terminato il proprio compito, ne vengano assegnati di nuovi (pertanto, si preferisce tirare per le lunghe il più possibile il primo lavoro) sia al timore di finire un lavoro quando è diventato piacevole o ha dato un nuovo senso alla propria vita.
- PAURA DI ESSERE RIFIUTATI
È un timore molto frequente che si basa sulla tendenza a prendere il rifiuto, su un qualcosa da noi prodotto, come un attacco alla nostra persona.
- PAURA DI PRENDERE LA DECISIONE SBAGLIATA
È la paura di decidere, nel timore che si faccia la scelta errata e si debba convivere con le relative conseguenze. Si cerca di rimandare finchè non si è sicuri che quella decisione sia quella più adeguata.
Riappropriamoci del nostro tempo
Il primo passo da fare per uscire dal tunnel della procrastinazione consiste in un lavoro di autoanalisi: cercare di identificare le paure sottostanti la personale tendenza a rinviare. Una volta riconosciute, riflettiamo su di esse e sulle loro possibili conseguenze. Ci renderemo conto che la paura è affrontabile e ridimensionabile e che, anzi, si può imparare qualcosa di prezioso da essa.
Il secondo passo consiste nell’ “ardua impresa” del cominciare. Alcune semplici, ma mirate indicazioni sul modus operandi di chi valorizza il suo tempo possono aiutare a rivalutare il proprio:
1) Programmate del tempo per programmare
Dedicate ogni giorno un po’ di tempo per la programmazione delle attività che dovrete svolgere, individuando quali sono gli strumenti necessari e le risorse che occorre attivare.
2) Scrivete liste
Fate una lista di tutte le attività che dovete svolgere, assegnando le relative priorità. Finchè i vostri progetti fluttuano nella mente, permangono nello stato di preoccupazioni informi. Scriverle consente di delinearle, dando loro forma e concretezza.
Fate una seconda lista dove annotare tutto l’occorrente (strumenti, materiali, ecc..).
3) Spezzate il lavoro in parti facilmente gestibili
Scomponete le vostre attività in piccole tappe. Assegnarsi delle piccole ricompense al conseguimento di ogni tappa motiva e sollecita il raggiungimento di essa.
4) Fissate delle scadenze
Determinate i limiti temporali entro i quali portare a termine i compiti
5) Concentratevi su un compito alla volta
In modo da non oberare la mente di lavoro né distrarla, disperdendo inutilmente energie mentali.
6) Affrontate per primi gli aspetti del lavoro più sgradevoli
Escogitate degli escamotages per alleggerirne il peso, es. ascoltare musica.
7) Confronto
Parlate agli altri dei vostri progetti o lavori e state ad ascoltarli. Scoprirete una fonte preziosa di consigli utili per ottimizzare il vostro impegno e facilitare il vostro compito.
Spesso il semplice parlare del problema, può far scaturire la soluzione.
8) Immaginazione
Dedicate qualche minuto per raffigurarvi mentalmente lo svolgimento del lavoro; immaginate ogni tappa del compito, ogni strumento necessario, ogni persona coinvolta. In tal modo, riuscirete ad avere un’idea d’insieme, ma allo stesso tempo dettagliata del lavoro da fare e potrete individuare quello che manca o ciò a cui non avete pensato.
Chi ben comincia è a metà dell'opera
SBARAZZARSI DELLE CIANFRUSAGLIE
Createvi un ambiente ordinato che stimoli all’azione ed alla produttività.
Disordine e confusione alimentano la procrastinazione.
Selezionate ciò che è importante (carte, documenti, fogli, appunti, cataloghi, abiti, ecc..) e gettate il resto. Cernita ed archiviazione sono indispensabili per garantire un buon inizio.
Le radici nell'educazione
Per favorire la crescita di un bambino che sappia divenire un adulto competente nella gestione del suo tempo, risulta essenziale il ruolo giocato dal contesto familiare. Da una parte, esso deve essere in grado di trasmettere modelli comportamentali positivi: il bambino deve poter vedere i suoi genitori affrontare adeguatamente i compiti che li riguardano. Dall’altra, l’educazione del piccolo deve potersi incentrare su una attenta ed empatica presenza affettiva dei genitori che garantisca al bambino lo sviluppo di un adeguato senso di autostima, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione della sua unicità, l’incoraggiamento ad assumersi responsabilità confacenti la sua età, sollecitando lo sviluppo della sua personale creatività nell’affrontare i compiti, il rinforzo dei comportamenti adattivi (come portare a termine i compiti richiesti) mediante approvazione e lodi o piccole ricompense. Il bambino che crede in sé, nel proprio valore e nelle proprie risorse apprende ad affrontare senza paura e serenamente tutte le attività che lo riguardano.
BIBLIOGRAFIA- Rita Emmett, The Procrastinators’s Handbook, Walzer £ Co.,2001.
- Malcolm Slavin e Daniel Kriegman, The Adaptive designe of the Human Psyche, New York, Guilford Press, 1992.
- Mark Epstein, Thoughts without a Thinker, New York, Basic Books, 1995.
martedì 20 aprile 2010
L' arte del rinviare
mercoledì 14 aprile 2010
Amaxofobia: la paura di guidare.Tecniche e strumenti di intervento psicologico
Sul blog PsicologiaLegale.it erano stati pubblicati alcuni contenuti, qui trovate un riferimento:
http://www.psicologialegale.it/amaxofobia-la-paura-di-guidare/2010/01/12/
Vista la costante domanda di aiuto per curare l'amaxofobia, Obiettivo Psicologia ha sviluppato un percorso formativo molto agile, operativo e focalizzato su questo specifico intervento psicologico:
http://www.obiettivopsicologia.it/corsi-psicologia/corsi-psicologia-aula/amaxofobia-paura-di-guidare.php
Per eventuali richieste di informazione, scrivete pure a formazione@opsonline.it
La società ha un grande bisogno di Psicologia, e lo psicologo dovrebbe attivarsi nell'individuare e servire nuove nicchie di domanda. Bene, penso che questo corso e questa problematica vadano esattamente in quella direzione!
martedì 30 marzo 2010
La psicoterapia funziona! Meglio degli psicofarmaci.
Le ricerche scientifiche sottolineano i vantaggi dell'utilizzo della psicoterapia al posto dell'impiego degli psicofarmaci.
LA PSICOTERAPIA FUNZIONA! Meglio degli psicofarmaci.
E’ stato scoperto dalle osservazioni condotte durante la Risonanza Magnetica Funzionale (fRMI), una tecnica di osservazione delle aree del cervello attive in determinate circostanze o attività (leggere, parlare, ascoltare, ricordare, fare sesso, ecc) che la psicoterapia agisce sul cervello modificandolo.
“In base alle osservazioni condotte con la tecnica della Risonanza Magnetica Funzionale (fRMI) è risultato che la psicoterapia può modificare la struttura del cervello. La scoperta è stata presentata durante il " 20° Congresso mondiale di Medicina psicosomatica" tenutosi a settembre 2009 a Torino. Secondo gli esperti, la psicoterapia e' in grado di modificare l'attivazione di aree specifiche cerebrali in modo tale che l'individuo possa gestire meglio emozioni negative quali ansia, panico, depressione, paura.” (da La Stampa del 23/09/2009).
Questa tecnica di indagine (fRMI) ha, quindi, evidenziato che, per esempio, pazienti sofferenti per fobie, ansia o stati depressivi più o meno gravi presentavano, dopo essersi sottoposti per qualche mese ad un ciclo di incontri con uno psicoterapeuta, i livelli di attivazione delle aree cerebrali interessate nel disturbo specifico del tutto vicine alla norma, come se avessero assunto dei farmaci.
Ecco un esempio maggiormente esplicativo: “C’è un uomo che ha paura dei ragni. Ne ha uno davanti. La fotografia del suo cervello mostra che una parte - l’area pre-frontale laterale destra - si attiva, stimolata dalla sua paura. Qualche tempo dopo lo stesso individuo non ha più alcuna reazione. Guarda un ragno, eppure reagisce in modo «normale», come quello di chi non è assalito da impulsi di terrore.” ( da La Stampa del 23/09/2009)
In questo caso specifico è chiaro ed evidente che il cervello della persona si è modificato. Si è modificata, in particolare, la struttura dei neuroni (cioè, la materia di cui il cervello è composto). L’aspetto più interessante e innovativo, però, risiede nel fatto che tutto ciò è accaduto senza intervenire farmacologicamente (come purtroppo molto spesso si fa in Italia), ma solamente grazie alla psicoterapia, grazie, cioè, alla relazione tra un individuo (paziente) e un altro (psicoterapeuta).
La terapia della psiche (della mente o del pensiero, se preferite) è in grado di far cambiare forma ed anche attività al cervello: non solo contrasta ansie e fobie, ma regola anche le risposte agli stress causati dalle malattie. Agisce, infatti, sulle interrelazioni tra gli aspetti biologici (organici) e neuronali (psicologici, se vogliamo) cioè su quelli che in gergo scientifico sono detti circuiti neurobiologici. La psicoterapia “Ha lo stesso effetto dei farmaci anti-paura, insomma”, spiega Secondo Fassino, direttore del Centro universitario per i Disturbi del Comportamento Alimentare dell’ospedale Molinette di Torino che ha ospitato il congresso. ( da La Stampa del 23/09/2009)
Fortunatamente, quello dell’utilizzo della psicoterapia al posto dei farmaci è un procedimento che sta consolidandosi negli anni, nonostante la tendenza diffusissima a ricorrere ai farmaci per molti disturbi o disagi che potrebbero efficacemente essere affrontati con la psicoterapia.
Non è insolito, infatti, che genitori di bambini “irrequieti”, oppure persone con problemi di ansia, fobie, ossessioni, attacchi di panico, depressione, distorsioni dell’umore ecc., si rivolgano preferenzialmente a neurologi, psichiatri o neuropsichiatri per risolvere i propri disagi; e non è insolito, purtroppo, nemmeno il fatto che tali operatori prescrivano farmaci a iosa, con leggerezza e intenzionalità anche quando sanno benissimo che basterebbe un ciclo di psicoterapie o un affiancamento di sedute di psicoterapia alla terapia farmacologica. Certo è che non tutti gli psichiatri, neurologi e medici di base sono così insensibili, purtroppo, però, manca in Italia il pieno sviluppo di quella funzione informativa che essi dovrebbero attuare, manca, cioè la funzione “ponte” tra la medicina e la psicoterapia.
Il fatto ancora più sconcertante, per non dire terrificante, riguarda proprio i bambini, cioè la facilità con cui, anche a loro, oggi vengono somministrati farmaci per problemi e disagi a cui si potrebbe far fronte benissimo con le parole, l’ascolto, con l’educazione, l’amore e regole comportamentali chiare e adeguate.
E’ il caso,per esempio, di bambini che se mostrano frequenti distrazioni in classe o un’eccessiva aggressività con i compagni, oggi, vengono classificati come malati di ADHD, cioè della “sindrome da deficit di attenzione e iperattività”. In pratica, il bambino viene subito considerato un malato mentale, riconducendo ad un deficit fisiologico quello che, spesso, è un problema ambientale o sociale. Ma, l’aspetto peggiore sta negli effetti collaterali e a lungo termine dell’uso di tali farmaci: il Ritalin (della Novartis), per restare nell’ambito dell’esempio dei bambini, fino al 2003 era classificato insieme agli oppiacei, alla cocaina, all’eroina e all’LDS (nella tabella n.7 della Farmacopea), poi, per decreto ministeriale, è passato nella sottotabella IV, dove si trovano le benzodiazepine e gli altri psicofarmaci. Questa decisione non ha nessun fondamento scientifico, né logica di benessere o utilità, in quanto la stessa Novartis mette guardia, nella scheda tecnica del farmaco, circa i rischi dell’uso di tale farmaco. Si legge, infatti, “un uso abusivo può indurre marcata assuefazione e dipendenza psichica con vari gradi di comportamento anormale (…) Si richiede un’attenta sorveglianza anche dopo la sospensione del prodotto poiché si possono rilevare grave depressione e iperattività cronica”. Praticamente, si tratta di un farmaco che provoca effetti molto peggiori di quelli che dovrebbe curare! Anche nella “Guida all’uso dei farmaci” stilata dal Ministero della Salute si parla di effetti collaterali anche peggiori e, nonostante ciò, basta che un bambino sia un po’ negligente, corra, si dimeni sulla sedia, parli troppo, si agiti o ascolti poco che i genitori vengano indirizzati ad una visita specialistica da cui, se il professionista è un sciacallo, può scaturire la prescrizione di un farmaco e non di una psicoterapia.
La psicoterapia, anche in questo caso, è meglio! Per lo meno non ha effetti collaterali.
Pensateci.
Bibliografia e fonti:
Kandel ER. Biology and the future of psychoanalysis: a new intellectual framework for psychiatry revisited. American Journal of Psychiatry, 1999 Apr; 156(4):505-24.
Miniver. Settembre 2006, n.4, pg. 6 “Anti depressivi e suicidi infantili. Quando gli psicofarmaci vengono dati ai bambini”.
Quotitiano:“La Stampa” del 23/09/09
http://www.psicoanalisi.it
mercoledì 10 marzo 2010
Bambini disattenti in classe: aiutare la famiglia e la scuola a gestire l'Attention Deficit Disorder (con e senza iperattività)
Bambini disattenti in classe:
aiutare la famiglia e la scuola a gestire l’Attention Deficit Disorder (con e senza iperattività)
L’argomento di cui stiamo parlando
La sindrome da deficit dell’attenzione con iperattività, conosciuta con l’acronimo ADHD (dall’inglese Attention Deficit /Hyperactivity Disorder) o DDAI (dall’italiano “Disturbo da Deficit dell’Attenzione con Iperattività”) è un complesso insieme di problemi comportamentali che compromettono in varia misura l’adattamento del bambino/ragazzo all’ambiente, in particolare a quello scolastico.
Come è classificato il problema nei manuali diagnostici?
I due più importanti manuali di riferimento, usati dai clinici per porre una corretta diagnosi, ossia l’americano DSM IV e l’europeo ICD 10, classificano l’ADHD in maniera un po’ diversa tra loro. In entrambi i manuali, comunque, il disturbo è precoce (prima dei 6 – 7 anni), non deve essere transitorio, deve manifestarsi in più contesti (solitamente, a casa e a scuola), deve essere di entità tale da compromettere l’adattamento alla scuola e il funzionamento sociale.
Come si manifesta il problema quando l’iperattività è presente?
La parte più visibile della sindrome, e quindi più facilmente individuabile anche dagli insegnanti, è proprio quella dell’iperattività. Il bambino, già dalla scuola d’infanzia, si comporta in maniera “agitata”, non riesce a focalizzarsi su un’attività (anche di gioco) a lungo, sembra non ascoltare le istruzioni che gli vengono date, corre e si arrampica, non riesce a stare seduto nemmeno dopo numerosi richiami….. tutto questo si manifesta in maniera molto più evidente rispetto ai bambini di pari età.
Quando il problema dell’ADHD si presenta in questo modo, cioè attraverso un’irrequietezza non conforme all’età, è facile che già gli insegnanti della scuola d’infanzia o al massimo della scuola primaria parlino con la famiglia di un problema di adattamento. La famiglia può confermare l’esistenza di difficoltà anche nell’ambito domestico, e accettare di consultare uno specialista dello sviluppo per chiarire il problema e iniziare un percorso di aiuto.
La presenza di impulsività e/o aggressività può compromettere ancora di più la situazione e rendere difficoltosa per la famiglia e la scuola la gestione del bambino.
L’iperattività/impulsività può creare grossi problemi a scuola e a casa ma, essendo facilmente rilevabile, consente almeno un intervento precoce.
Come si presenta il problema quando l’iperattività non è presente?
Il bambino disattento (ma non iperattivo) si può descrivere come un bambino con uno sviluppo cognitivo generale normale, ma con grossi problemi nell’utilizzare la sua intelligenza a causa di un complesso problema di gestione delle sue risorse attentive.
Il bambino potrebbe presentarsi come “svagato”, “svampito” (termini usati talvolta dai genitori per rendere l’idea del comportamento del figlio), sembra non ascoltare quello che gli si dice, non riesce a organizzarsi nelle attività della sua età (perde l’attenzione durante le attività, anche nel gioco; non riesce a organizzarsi nei compiti; dimentica a casa il materiale che gli serve a scuola).
Inoltre esegue i compiti lentamente o troppo in fretta, commettendo molti errori di “distrazione” e raramente porta a termine il lavoro nei tempi stabiliti dalla scuola.
Questi problemi sono presenti in varia misura, a seconda della gravità, ma sempre tali da rendere difficoltosa la carriera scolastica e gli apprendimenti.
Inoltre, sebbene la difficoltà attentiva sia presente anche in età prescolare, il problema potrebbe passare inosservato (o essere compensato da un’intelligenza brillante) fino alla terza/quarta della scuola primaria, quando le richieste scolastiche aumentano in maniera tale che per il bambino diventano insostenibili.
Quali conseguenze ha il problema?
Il bambino/adolescente con ADHD ha problemi di profitto scolastico e di socializzazione. Se è molto iperattivo, l’organizzazione scolastica può essere messa a dura prova e, specialmente se gli insegnanti non hanno ricevuto una formazione specifica su questa problematica, i rapporti scuola - famiglia possono inasprirsi e diventare conflittuali. Infatti il comportamento continuamente irrequieto e/o aggressivo disturba la lezione e la classe; gli insegnanti possono reagire chiamando i genitori, mettendo “note” sul diario, ricorrendo a punizioni….
La famiglia può reagire a sua volta mettendosi sulla linea di difesa e negando il problema, oppure dicendo che sono gli altri bambini che cominciano per primi ad infastidire il figlio o che gli insegnanti lo hanno “preso di mira”. Oppure i genitori, mortificati dai richiami della scuola, mettono il bambino/ragazzo sotto stretto controllo, cercano di farlo studiare di più con il risultato che la tensione familiare aumenta, il conflitto genitori – figli si inasprisce fino al crearsi di momenti di crisi veramente difficili. Il bambino/ragazzo a scuola può essere rifiutato dai compagni (per esempio non viene invitato ai compleanni), il che aumenta il suo senso di inadeguatezza, può provocare rabbia e quindi incrementare l’aggressività.
Secondo la mia esperienza, attualmente è raro trovarsi in situazioni come quelle sopra descritte. La sindrome del deficit attentivo con iperattività è stata infatti l’argomento di molti corsi di formazione per le scuole e le famiglie, svolti sul territorio. La scuola è quasi sempre in grado di mantenere un rapporto di fiducia con i genitori e di orientarli verso uno specialista per iniziare una collaborazione con il fine di aiutare il bambino e la sua famiglia a gestire questo problema dello sviluppo.
Se invece il bambino è solo disattento ma non iperattivo (o solo poco iperattivo), il problema può passare inosservato per un certo periodo di tempo. In primo luogo, la disattenzione ha un impatto meno forte sulla scuola e gli insegnanti possono attribuire la scarsa applicazione allo studio a un problema di svogliatezza, a disinteresse o a qualche problema emotivo. Alla scuola d’infanzia il problema potrebbe non manifestarsi in maniera rilevante. Con il progredire della carriera scolastica, però, le richieste di attenzione prolungata aumentano e il bambino/ragazzo, pur intellettivamente dotato, può andare incontro ad un “patatrac” nel profitto. La discrepanza fra il buon livello cognitivo e la bassa resa scolastica viene in qualche modo percepita da genitori e insegnanti che possono reagire con disappunto o addirittura con rabbia; inoltre la disattenzione può manifestarsi solo in compiti ed attività lunghi e noiosi, ma non essere presente in altre situazioni motivanti. Frasi tipiche che vengono riportate allo specialista: “Eppure se volesse lo potrebbe fare!”, “Gliel’ho detto mille volte, ma non si impegna a fare come gli dico!”, “Si dimentica mezzo corredo scolastico a casa, ma gli spiccioli per le figurine quelli sì che ce l’ha!”.
I casi di disattenzione senza iperattività, che secondo la mia esperienza vengono descritti meno in dettaglio nei corsi di aggiornamento per le scuole, giungono spesso tardivamente all’osservazione dello psicologo, quando la carriera scolastica è compromessa, il clima familiare è tesissimo, il bambino/ragazzo è deluso e rinuncia ad impegnarsi di più, possono essersi sviluppati disturbi d’ansia e dell’umore, oltre a chiusura e ritiro sociale.
Cosa può fare lo psicologo
E’ compito di un professionista (psicologo o neuropsichiatria) porre una corretta diagnosi, impostare e supervisionare il trattamento, collaborando anche con altri professionisti della riabilitazione. E’ fondamentale la collaborazione fra gli specialisti, la famiglia e la scuola.
La diagnosi passa attraverso una serie di check - list comportamentali già validate e/o interviste strutturate con gli insegnanti e i genitori. Inoltre lo psicologo può effettuare (previo accordo con tutti gli adulti coinvolti nel problema) un’osservazione in classe per osservare il comportamento del bambino/ragazzo nel suo ambiente, verificare quali possono essere le situazioni più critiche e quali tentativi sono stati fatti per migliorarle.
Può completare la sua osservazione con la somministrazione di reattivi per la misurazione dell’intelligenza, della memoria di lavoro, delle componenti dell’attenzione e di quanto altro ritenga utile alla conoscenza del singolo caso.
In seguito può svolgere una serie di sedute con i genitori (da soli o con altre famiglie nella stessa situazione) con l’obiettivo di informarli sul problema e orientarli alla miglior gestione del figlio, anche al fine di ridurre le tensioni familiari che possono crearsi. Questo tipo di percorso è conosciuto sotto il nome di Parent Training.
Inoltre può orientare gli insegnanti nella gestione del bambino/ragazzo disattento/iperattivo all’interno della classe, può aiutarli a sperimentare strategie nuove di intervento sui comportamenti problematici e a trovare tecniche psicoeducative per ridurre i comportamenti indesiderati e aumentare quelli adeguati.
Con il bambino lo psicologo può svolgere attività ludiche volte al sostegno dell’attenzione nelle sue varie forme e verificarne l’efficacia; con i più grandicelli può programmare un trattamento volto all’insegnamento di strategie per fronteggiare l’impulsività e di modi funzionali per gestire le risorse attentive.
Per rendere l’informazione più completa va detto che oggi in Italia sono disponibili farmaci per il trattamento dell’ADHD. L’intervento farmacologico è di esclusiva competenza del medico specialista, che deve valutare l’opportunità di proporre il farmaco dopo aver preso in considerazione una serie di fattori. Attualmente l’uso del trattamento farmacologico è oggetto di un vasto dibattito sociale.
Bibliografia
(Quasi tutti i testi riportati sono di facile reperibilità, ma va ribadito che la diagnosi e il trattamento dell’ADHD richiedono le competenze di uno psicologo o di un neuropsichiatria)
Cornoldi C., Gardinale M., Masi A., Pettenò L. Impulsività e Autocontrollo, Trento, Erickson 1996
Fedeli D. Kiwi, Firenze, Giunti O.S. 2007
Vio C, Marzocchi G.M. Il bambino con Deficit di Attenzione/ Iperattività, Trento, Erickson 1999
Chiarenza G.A, Bianchi E., Marzocchi G.M., Linee guida del trattamento cognitivo – comportamentale dei Disturbi da Deficit con Attenzione con Iperattività (ADHD), approvate dalla SINPIA, 2002
Conferenza Nazionale di Consenso. Indicazioni e strategie terapeutiche per i bambini e gli adolescenti con disturbo da deficit attentivo e iperattività, Cagliari 2003
giovedì 21 gennaio 2010
L'invidia: difficile da riconoscere e da ammettere anche a se stessi
Prima parte dell'articolo pubblicato dalla Dott.ssa Mattozzi sul portale di benessere4u.it
Spesso confusa con la gelosia, l'avidità o con il rancore, l'invidia è una emozione ben precisa, ritenuta ripugnante, inconfessabile e quindi vissuta in solitudine. Nell'immaginario collettivo spesso invidia e gelosia sono considerate come la stessa emozione. Lo psicologo Gerrod Parrot, ricercatore presso l'Università Georgetown a Washington precisa che l'invidia «è la sofferenza per la mancanza di qualcosa che altri hanno (denaro, successo..)», invece la gelosia «è una emozione che si sperimenta all'interno di una relazione intima tra due persone, cioè quando uno teme di perdere una persona cara al confronto con un rivale». Accade però che queste due emozioni si concentrino nella stessa situazione e ciò avviene per esempio quando in una relazione intima si prova gelosia a causa di una terza persona che possiede delle qualità per cui si prova anche invidia!
Chi è l’invidioso?L'invidioso vede qualcosa di buono e di bello nel prossimo e anziché tentare di seguirne le orme, rimane avvinghiato in un certo fastidio continuo che gli "rode" dentro. Affinché sia riconosciuta come invidia occorre che prevalga l'aggressività distruttiva, dunque non ci si preoccupa più delle proprie capacità, ma del tentativo di danneggiare colui che si invidia. L'invidioso può rivolgere la propria invidia verso oggetti materiali che non si possiedono e che si vorrebbe avere, ma anche verso doti possedute dall'invidiato come per esempio la bellezza, l'intelligenza, il fascino: in certi casi l'invidioso reagisce tentando di disprezzare o di sminuire l'invidiato, perché ai suoi occhi questo è colpevole di evidenziare ciò che l'invidioso non ha, potrebbe sentirsi sminuito dall'esistenza dell'invidiato e danneggiato da questo.
Il resto dell'articolo si può trovare qui.
mercoledì 13 gennaio 2010
Pene d’amore: un dolore per il cervello
Un recente studio pubblicato su “Proceedings of the National Academy of Sciences” ha dimostrato che quando si soffre per amore si attivano, nel cervello, le stesse aree cerebrali coinvolte nelle sensazioni di dolore fisico. E non solo, alcune persone avrebbero una predisposizione genetica a soffrire di più.
La ricerca
In uno studio che ha coinvolto 122 volontari, la psicologa californiana Naomi Eisenberger, attraverso un gioco basato su una simulazione di rifiuto sociale, ha suscitato, nei soggetti, dei vissuti di esclusione con l’obiettivo di innescare una reazione simile a quella provata quando non ci si sente ricambiati nei sentimenti. Successivamente veniva effettuata una risonanza magnetica. Dall’esame risultava che, nella persona respinta, si attivavano delle aree del cervello, in particolare, la corteccia cingolata anteriore e l’insula anteriore sinistra, entrambe coinvolte nella percezione del dolore fisico.
Anche Donatella Marazziti, psichiatra all’Università di Pisa che si occupa dei meccanismi molecolari cerebrali che hanno un ruolo nei sentimenti, ha sottolineato che sia plausibile il fatto che il dolore fisico e psicologico possano attivare lo stesso circuito neurale e, inoltre, in entrambi i casi, il dispiacere rappresenta un segnale di pericolo. Questo fa si che, sia nelle esperienze di dolore fisico, sia nei vissuti di disagio legati a una delusione d’amore, siano stimolati i recettori per gli oppioidi sensibili alle sostanze come la morfina. Da quanto emerge dallo studio, in alcune persone le aree cerebrali coinvolte nella percezione del dolore erano più ampie e questo acuiva la loro sensibilità al rifiuto sociale.
Il resto dell'articolo si trova su benessere4u.it
venerdì 4 dicembre 2009
Disturbi dell’Umore, Disturbi di personalità e Psicoterapia.
E’ molto frequente che un cliente giunga in terapia motivato dal bisogno di sentirsi più sereno e di “tornare come prima”, quando a suo dire, aveva “voglia di fare e sorridere”; o per raggiungere una “stabilità nell’umore”, a volte mai provata.
Spesso dietro alla tristezza profonda e alla mancanza di voglia di vivere ci sono separazioni e perdite. Queste possono riguardare persone ma anche luoghi, cose o entità, che sono state affettivamente importanti per la persona stessa e che da qualche tempo non ci sono più.
All’inizio della terapia il cliente vive tali perdite spesso come “devastanti” e descrive il vuoto rimasto nella propria vita come “incolmabile”; non c’è nient’altro attorno che possa essere minimamente paragonabile a ciò che è venuto a mancare. Il dolore è grande e nei casi estremi per alcuni l’unica via d’uscita per porre fine alla sofferenza appare essere il suicidio.
A volte la persona riferisce di sentirsi confusa per il fatto di sperimentare “sbalzi dell’umore” che non gli permettono di capire le preferenze e orientarsi nella vita in modo sicuro. Altre volte ancora essa comunica di sperimentare un profondo “senso di vuoto”, che l’ha accompagnata per gran parte della propria vita; alcuni portano con sé i primi ricordi legati ad esso, altri non ne ricordano l’origine e credono che faccia parte del loro “carattere”.
Il desiderio di migliorare lo stato dell’umore indica che probabilmente la persona presenta un Disturbo dell’Umore. Nel caso della persona triste o disperata si tratta di depressione o distimia, nel caso della persona con umore ballerino si tratta di disturbo bipolare (molto probabilmente ma non sempre, poichè spesso dietro l’umore instabile si nasconde un Disturbo della Personalità).
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