venerdì 27 novembre 2009

La sindrome di Medea: le madri assassine

Prima parte dell'articolo della Dott.ssa Sara Eba Di Vaio pubblicato sul portale di benessere4u.it


L’uccisione di un bambino per mano di sua madre è un gesto così violento che è impossibile giustificarlo. Ma capirlo, perlomeno provare, è importante, fondamentale, perché si possa tentare di prevenirlo.

Sabato sera, 21 novembre 2009, l’ennesima tragedia. Lo scenario è una villetta unifamiliare costruita in mezzo alla campagna a Pieve di Curtarolo, ad una ventina di chilometri da Padova.
Gianni, 40 anni, esce di casa alle 19, per rientrare mezz'ora dopo con due pizze per la cena. In cucina trova sua moglie, Monica di 35 anni, con gli abiti sporchi di sangue e il figlio Alessandro che non aveva ancora tre anni, ormai morto, tenuto stretto tra le braccia.
Monica lo ha ucciso con una decina di coltellate e poi lo ha avvolto con una piccola coperta e si è distesa sul pavimento, tenendo sempre stretto a sé il corpicino del piccolo.
A fianco a loro, il coltello da cucina usato come arma.
Ci sono volute quasi quattro ore per toglierle il figlio dalle braccia. Il pm padovano Orietta Canova ha disposto il fermo per omicidio volontario nei confronti della donna. Ora Monica, che solo tre mesi fa aveva dato alla luce una bambina, è ricoverata nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Padova, tenuta sotto sedativi e sotto stretta sorveglianza dei carabinieri. Per ore e ore, la donna è rimasta con lo sguardo perso nel vuoto, senza dire una parola.
La donna, secondo quanto il marito avrebbe riferito ai carabinieri, dalla nascita della seconda figlia non era più apparsa serena. In più di un'occasione gli era sembrata strana, taciturna. Aveva cambiato comportamento, ma non lo aveva preoccupato e non poteva presagire una tragedia di questa portata. Al momento per gli inquirenti non è stato possibile ascoltare la donna; l’ipotesi più accreditata e che rimbalza nei titoli dei giornali sembra essere quella di un raptus di follia dovuto ad una depressione post partum
.

Ma cos’è la depressione post partum?

Nei primi giorni dopo il parto molte donne (oltre il 70%) manifestano un disturbo denominato baby blues o “sindrome del terzo giorno”, un disturbo transitorio che insorge 2-3 giorni dopo il parto e che è costituito da alterazioni dell'umore, quali ansia, tristezza, irritabilità, facilità al pianto e agitazione immotivata nei confronti del neonato, del partner, dei familiari in genere, inclusi altri figli. La donna tende a domandarsi continuamente se è in grado (e nel modo giusto) di prendersi cura del proprio bambino, se è capace di assumersi le responsabilità nei suoi confronti.

È un disturbo transitorio e di lieve entità che, generalmente, si autolimita entro due-tre settimane.
Ben più gravi e duraturi sono i sintomi della “depressione post-partum” che possono perdurare anche per un intero anno e che comprendono:

* eccessiva preoccupazione
* ansia
* irritabilità
* sentirsi sotto pressione e sovraccariche
* esaurimento
* disperazione
* inappetenza
* insonnia o sonno eccessivo
* confusione
* difficoltà a prendere decisioni
* pianto inconsulto
* disinteresse per il bambino
* paura di far male al bambino o a se stessa
* improvvisi cambiamenti di umore

Alcuni sintomi specifici riguardano la relazione madre-bambino e spesso acuiscono nella madre sentimenti di colpa, vergogna e inidoneità al ruolo di madre. In particolare è molto frequente:

* Avvertire il bambino come un peso
* Non riuscire a provare emozioni nei confronti del bambino
* Sentirsi inadeguate nella cura del bambino, avere paura di restare sole con lui
* Pensare di essere madri e mogli incapaci
* Non riuscire a concentrarsi nelle cose quotidiane, che hanno a che fare con l'interazione madre-bambino (riconoscimento dei bisogni reciproci, sintonizzazione emotiva, le semplici cure parentali)

Il fenomeno è riscontrato in circa il 10% delle donne che hanno appena partorito, con un incremento del 30% se sono state colpite dalla stessa depressione, in occasione di un parto precedente. La percentuale sale sensibilmente in presenza di donne che hanno già manifestato in passato disturbi psichici di varia natura. La durata dei sintomi varia da qualche settimana ad un anno, con rischi di ricomparsa successiva.

In un continuum, il disturbo può essere progressivamente più grave fino alla psicosi post partum: è la forma più grave di depressione. I sintomi comprendono stati di agitazione, confusione, pessimismo, disagio sociale, insonnia, paranoia, allucinazioni, tendenze suicide o omicide nei confronti del bambino. La casistica delle psicosi post-partum è di una neomamma ogni mille.

Già da diverso tempo psicologi e psichiatri hanno lanciato l’allarme e sollecitato a non sottovalutare eventuali segnali anche minimi di disagio. In particolare vengono chiamati in causa i ginecologi e i pediatri che seguono le donna in gravidanza e poi nel puerperio.


MA L’ATTENZIONE DEVE ESSERE DI TUTTI

Non sono i curanti che fanno la cura ma la società (Marinopoulos, 2008)

Il malessere provocato dall’arrivo di un figlio non è un fenomeno raro. Già vent’anni fa Soulè e Noel parlavano di una “vulnerabilità parentale”, ovvero la possibilità che dei futuri genitori possano essere turbati dall’arrivo del figlio. Secondi gli autori può trattarsi di un disagio lieve, ma anche grave. Proprio per questo bisogna essere presenti, vigili, saper riconoscere i segnali premonitori di un malessere.
Una donna nel primo mese dopo il parto corre il più alto rischio di essere ricoverata in una struttura psichiatrica rispetto alla sua vita intera. La depressione post partum è un male sempre più diffuso che si innesca su problemi preesistenti.
Di questo anche le donne quando sono in attesa di un figlio devono essere consapevoli.

La prevenzione delle patologie psichiche post partum, con l’individuazione tempestiva dei fattori di rischio, costituisce un importante obiettivo da perseguire sia nel corso stesso della gravidanza sia, in ogni caso, attraverso la diagnosi precoce delle prime manifestazioni sospette di disagio della neo mamma.

Un impegno prioritario, quello dell’assistenza alla donna in gravidanza, nel parto e nel puerperio, che richiede profili di intervento diversi e complementari che coinvolgono dimensioni educative, psicologiche, sanitarie e sociali
Nel documento “Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post partum” stilato dal Comitato nazionale di bioetica, viene proposta un’equipe che comprenda anche uno psicologo per seguire ogni gravidanza. In più, si sottolinea la necessità di una formazione particolare dei ginecologi e di tutto il personale sanitario perché nel momento in cui comunicano lo stato di gravidanza sappiano dare ampio spazio all’ascolto, cogliendo per tempo i possibili conflitti. Ancora, secondo gli esperti del Comitato, vanno sensibilizzati il padre e la famiglia «e in alcuni casi bisognerebbe prevedere un sostegno esterno domiciliare», evitando che la madre si trovi sola.

Il resto dell'articolo potete trovarlo qui.

mercoledì 18 novembre 2009

Stalking: quando l’amore diventa ossessione e sfocia in tragedia!

"L’8 novembre 2009 l’ennesimo caso di stalking. Un uomo di 47 anni evade dagli arresti domiciliari e spara all'ex convivente. La donna è grave, il suo fidanzato perde un rene.

Voleva vendicarsi della ex, farla pagare a lei e al suo nuovo uomo, e c’è riuscito. Michele Lambiase non faceva mistero delle sue intenzioni tanto che nell’ultimo mese e mezzo per due volte era intervenuta la giustizia: prima con un divieto di dimora a Silvi Marina, dove vive la sua ex, poi con gli arresti domiciliari nella sua abitazione nel Foggiano. Ma tutto ciò non è bastato: l’uomo è evaso, è tornato nel Pescarese e ha messo ferocemente in atto il suo piano. Tre colpi di pistola da distanza ravvicinata: il primo ha sfigurato la donna, il secondo ha colpito in pieno torace il suo nuovo compagno, il terzo si è conficcato nell’auto.

Ora Michele Lambiase è in fuga, inseguito dall’accusa di duplice tentato omicidio.
Una relazione durata 4 anni dalla quale era nato un figlio. Poi la rottura. L’altra sera, Lambiase ha pianificato nei minimi dettagli la sua missione. Arrivato a Silvi, ha messo una parrucca bionda per non farsi riconoscere e ha spiato i movimenti della donna. Quando questa si è incontrata con il nuovo compagno in un parcheggio a Montesilvano, Lambiase è entrato in azione con una calibro 7.65 (detenuta illegalmente). Nonostante le ferite, i due sono riusciti a fuggire in auto, raggiungendo una caserma dei carabinieri.

Vari studi che hanno esaminato il profilo psicologico dei numerosi stalkers hanno permesso di individuare cinque tipologie, distinte sulla base di bisogni e desideri che fanno da motore motivazionale alle azioni di molestia e di attacco.
Michele Lambiase sembra appartenere alla prima tipologia, quella dei “respinti”, persecutori che diventano tali in reazione ad un rifiuto. Si tratta, in genere, di un ex che mira a ristabilire la relazione oppure a vendicarsi per l’abbandono. Spesso oscilla tra i due desideri, manifestando comportamenti estremamente duraturi nel tempo che non si lasciano intimorire dalle reazioni negative manifestate dalla vittima: la persecuzione infatti rappresenta comunque una forma di relazione che rassicura rispetto alla perdita totale, percepita come intollerabile. Nella psicologia di questo tipo di “inseguitore assillante” gioca un ruolo cruciale il modello di attaccamento sviluppato che è una delle forme di tipo insicuro, in grado di scatenare angosce legate all’abbandono che creano una tendenza interiore, più o meno consapevole, a considerare l’assenza dell’altro come una minaccia di annientamento e di annullamento del Sé. "

Il resto dell'articolo è su Benessere4u.it

lunedì 2 novembre 2009

Quando il bullo lascia il segno ...

Prima parte dell'interessante articolo sul bullismo pubblicato sul portale di benessere4u.

BULLISMO. Rimbalzano nelle cronache di questi giorni notizie di violenza provenienti dalle scuole. Dallo Steiner di Torino, in cui un ragazzo è stato marchiato a fuoco da un suo compagno, da Milano, dove alcuni studenti hanno ferito gravemente una professoressa con una pistola…

Sono giorni di ordinaria follia?

Probabilmente no. Si sono forse accesi i riflettori su un problema che troppo spesso aleggia nelle nostre scuole.

Lo chiamano “bullismo”… ma che cos’è?

Con questo termine ci si riferisce di solito in modo generico agli episodi di violenza che si verificano nel contesto scolastico.
Spesso viene definito come una sorta di “mobbing scolastico”.
In realtà per parlare di bullismo occorre che vengano soddisfatti alcuni criteri, come l’intenzionalità dell’atto, la ripetizione nel tempo di atti di violenza, sia fisica che non, nei confronti di qualcuno che per motivi diversi è più debole.
Le modalità sono varie: percosse, intimidazioni, diffamazioni, minacce…

Quando è bullismo…

Così come non si possono definire ancora bullismo gli scherzi e gli screzi tra compagni, non possono più chiamarsi bullismo gli episodi che assumono una gravità tale da costituire un reato, che entra quindi nei circuiti giudiziari.
Resta comunque un comune denominatore: la violenza. Quand’anche non ci fossero tutte le condizioni per parlare di bullismo nel senso proprio del termine, resta una situazione di disagio dall’una e dall’altra parte: dalla parte della vittima, che sperimenta spesso la paura e l’impotenza, e dalla parte del bullo, che forse con il suo comportamento vuole lanciare un messaggio.

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