mercoledì 28 luglio 2010

Lo sviluppo comunicativo-linguistico nei primi anni di vita

Articolo della Dott.ssa Recchia pubblicato su Benessere4u.it, il social network su salute e benessere psicologico.






I bambini imparano a comunicare e a parlare perché sono circondati da mamme, papà, nonni e zii che comunicano e che parlano tra loro e con loro.
Anche se ogni bambino ha i propri tempi e i propri modi di apprendere, esiste un percorso comune con delle tappe ormai ben conosciute dagli studiosi.
L'articolo presentato vuole esporre tale percorso per tutti i genitori che vogliono "saperne di più".

L’apprendimento del linguaggio nei primi anni di vita avviene senza un insegnamento formale, ma solo per esposizione ad un ambiente linguistico. I bambini imparano a comunicare e a parlare perché sono circondati da mamme, papà, nonni e zii che comunicano e che parlano tra loro e con loro.

Anche se ogni bambino ha i propri tempi e i propri modi di apprendere, esiste un percorso comune con delle tappe ormai ben conosciute dagli studiosi.

Di seguito verranno presentate la tappe linguistiche principali per l’apprendimento dell’italiano. La scansione temporale è da intendersi solo come riferimento generale, poiché i tempi di acquisizione variano da bambino a bambino.

5 mesi emergono i primi suoni vocalici, oltre a gridolini e gorgheggi. Appare il sorriso sociale (rivolto al volto umano) e, durante le interazioni quotidiane come la pappa o il cambio, il bambino mostra sempre più interesse e piacere a produrre suoni diversi. Se l’adulto lo imita è già possibile costruire delle micro-conversazioni, che rappresentano la base delle future conversazioni.

6-7mesi il bambino si sintonizza sui suoni tipici delle parole italiane e inizia a produrre sillabe composte da Consonante+Vocale ripetute (lallazione reduplicata): papapa; dada

8-10 mesi le combinazioni di suoni diventano più elaborate, composte da sillabe diverse per consonante e/o vocale (lallazione variata): daba; babu; pada.

A questa età il bambino inizia a comprendere le prime parole che sente più frequentemente, come i nomi delle persone (mamma, papà, nonna, tata) e degli oggetti più usati (biberon, ciuccio, pappa), i versi degli animali. Si volta quando lo chiamate e inizia a comunicarvi le sue richieste, soprattutto attraverso il gesto di indicazione:

RICHIEDE E INDICA > indica il biberon perchè vuole mangiare o lo richiede aprendo la mano

Intorno ai 12 mesi appaiono le prime parole, nelle quali il bambino utilizza le stesse sillabe su cui si è già allenato: pappa; papà; pappe

All’inizio, però, queste prime parole vengono prodotte solo in presenza dell’oggetto/persona che rappresentano o in un certo contesto:

il bambino dirà pappa > quando vedrà il piatto

dirà papà > mentre è in braccio al papà

solo più tardi le parole serviranno per chiedere un oggetto non presente, per chiamare il papà e poi per “parlare” .

In questo periodo il bambino comunica prevalentemente attraverso i gesti:

MOSTRA all’adulto gli oggetti > mostra il cane di peluche perchè vuole condividere l’attenzione su un gioco

DA’ all’adulto gli oggetti con cui gioca (spesso in una sequenza che assume le caratteristiche del gioco “dà - grazie”)

INDICA per richiamare l’attenzione su un evento interessante > indica la finestra perché ha sentito un cane abbaiare

Altri gesti, più evoluti, sono i gesti rappresentativi:

Es. avvicinare la mano all’orecchio » per dire TELEFONO/TELEFONARE

Il bambino usa il gesto con una funzione simile a quelle delle parole, per riferirsi a qualcosa o per rappresentare un’azione:

es. fare ciao >> per salutare

girare il dito sulla guancia >> per dire buono

portare l’indice sulle labbra >> per dire silenzio

Il significato di questi gesti è condiviso dal bambino e i suoi interlocutori e questo permette la comunicazione.

I gesti accompagnano le parole anche in una fase successiva:

A 12 mesi i bambini comunicano prevalentemente con i gesti

A 16 mesi c’è un’equipotenzialità: tanti gesti, quante parole

A 20 mesi diventa predominante la modalità verbale

È molto importante tener conto di questa modalità comunicativa del bambino, interpretando i gesti come veri messaggi. Magari trasformando il loro significato in una modalità verbale:

il bambino indica il biberon, la mamma può rispondere “mi stai dicendo che vuoi la pappa?”

Il periodo tra 12-18 mesi viene chiamata la fase del “lessico emergente”, poiché la crescita del vocabolario risulta ancora lenta: il bambino apprende circa 5 nuove parole al mese. Queste parole, inoltre, possono essere ancora semplificate e spesso comprese solo dai familiari.

La comprensione, invece, procede più velocemente: il bambino capisce un molte delle parole utilizzate nel suo ambiente (prima i nomi, poi aggettivi e verbi) e anche semplici frasi (“non toccare”, “vieni da papà”).

In questa fase, spesso il bambino inizia a mettere insieme una parola ed un gesto come fossero frasi.

Dice Pappa + gesto BUONA (gira il dito sulla guancia)

Dice Baubau + gesto di indicazione

Queste combinazioni CROSSMODALI (perché coinvolgono sia la modalità gestuale che quella verbale) precedono sempre le prime vere frasi di due o più parole. La capacità del bambino di formare frasi dipende, infatti, dalle sue competenze fonologiche e dal numero di parole conosciute. In genere si considera come soglia minima, un vocabolario di circa 100 parole.

Tra i 21 e i 26 mesi (fase dell’esplosione del vocabolario)

il bambino capisce che tutte le cose hanno un nome ed inizia a chiedere frequentemente “come si chiama/cos’è?” . In questo periodo impara a dire fino a 50 nuove parole al mese e inizia a comprendere, ormai, semplici discorsi su ciò che ha fatto ieri (passato) e su ciò che farà domani (futuro).

La costruzione della frase avviene, però, ancora lentamente (le seguenti fasce di età si sovrappongono poiché alcuni modelli di frase possono coesistere nello stesso periodo):

19-26 mesi prevalgono frasi telegrafiche cioè parole singole in successionemancano articoli, preposizioni, pronomi, verbi >“cane bello”, “pappa buona”,

20-29 mesi prevalgono frasi nucleari e complesse incomplete ( mancano ancora articoli, preposizioni) > “dà brumbrum”, “scrivo penna” , “voio acqua”

24-33 mesi le frasi nucleari sono ora complete, quelle ampliate e complesse si vanno completando > “io mangio la pappa”, “do la caramella alla bimba”

27-38 mesi anche le frasi complesse si completano e appaiono e connettivi interfrasali (dopo, perché, invece) > “il bimbo piange perché è caduto”, “mi metto le scarpe e dopo esco”

Rimane grande la variabilità individuale, ma intorno ai 3-4 anni tutti i bambini possiedono la maggior parte delle strutture frasali tipiche dell’italiano e sanno ormai “conversare” con adulti e coetanei, di molti argomenti. La capacità narrativa (raccontare di eventi passati e futuri) si consoliderà negli anni seguenti soprattutto grazie alla scolarizzazione.

Bibliografia

Caselli C., Pasqualetti P. e Stefanini S. (2007). Parole e frasi nel primo vocabolario del bambino. Franco Angeli.

Camaioni L. (2001). Psicologia dello sviluppo del linguaggio. Il Mulino.

Iverson J., Capirci O. e Caselli C. (1994). From communication to language in two modality. Cognitive Development, 1, 23-43.

Recchia M. (2005). La valutazione del primo sviluppo comunicativo-linguistico attraverso la forma breve del questionario “il Primo Vocabolario del bambino”. tesi di laurea non pubblicata.




martedì 13 luglio 2010

Facebook e intimità emotiva...riflessioni

Articolo a cura della Dott.ssa Serreri, pubblicato su b4u, il social network su salute e benessere psicologico.

Facebook e intimità emotiva...riflessioni

Facebook come specchio di una società narcisista o autoreferenziale o spazio comune di libertà di espressione?
Comunicazione reale o comunicazione virtuale? Che peso e che valore dare a questo modo di comunicare?
Vista la diffusione esponenziale è probabile sia capitato un po a tutti di riflettere su come facebook, ma anche altri social network rappresentino una nuova modalità relazionale.
Si partirà dalle motivazioni che spingono all'utilizzo di questo strumento e come questo possa soddisfare il bisogno della costruzione di legami intimi e profondi.

Sapere cosa prova un amico dopo aver passato una giornata non molto positiva, solo tramite la bacheca di facebook. Assistere o partecipare a discussioni su amici “virtuali” che probabilmente non incontreremo mai e con i quali abbiamo ben poco in comune.
Prendersela un po’ con qualcuno, sempre virtualmente, perché è apparso off-line mentre chattavamo o perché non ha commentato un link per noi particolarmente significativo.
Facebook come specchio di una società narcisista o autoreferenziale o spazio comune di libertà di espressione?
Comunicazione reale o comunicazione virtuale? Che peso e che valore dare a questo modo di comunicare?
Vista la diffusione esponenziale è probabile sia capitato un po’ a tutti di riflettere su come facebook, ma anche altri social network rappresentino una nuova modalità relazionale.
Nei vari profili, a volte, vengono scanditi ritmi, azioni, eventi ed emozioni di intere giornate. E' come se ci fosse un continuo desiderio di aggiornare gli altri su ciò che si fa, ciò che si prova. Un continuo bisogno di condividere, che molto spesso, non ha una continuità nel contesto reale.
Ma perché e in che modo facebook influenza o può influenzare le relazioni umane?
Facciamoci prima un’idea delle motivazioni sottese al suo utilizzo.
Da una ricerca condotta su ragazzi inglesi, sono state individuate sei motivazioni rispetto all'uso di facebook:

  • connessione sociale: rintracciare persone che non si vedono da tempo, restare in contatto con amici che abitano molto distanti;
  •  condivisione d'identità: far parte di gruppi che condividano le stesse opinioni, prendere parte o organizzare eventi rispetto ad interessi comuni;
  •  uso delle foto: si segnalano persone presenti all'interno delle foto e si segnalano nuove informazioni;
  •  uso delle applicazioni: attraverso l'uso di giochi o programmi l'utente può scoprire che vengono utilizzate anche da alcuni suoi contatti e quindi avere informazioni su di loro;
  •  investigazione sociale: osservare le attività dei propri amici, anche in modo intrusivo, nonché la possibilità di conoscere altre persone, sulla base di determinati criteri (interessi, amicizie in comune ecc);
  •  navigare tra le reti sociali: esplorare le reti sociali dei propri amici, visualizzando profili anche di persone che non si conoscono direttamente, avendo la possibilità di allargare i propri contatti sociali.
  •  aggiornamento: attraverso alcune funzioni si aggiorna il proprio stato e si visualizzano gli aggiornamenti altrui, per conoscere e farsi conoscere.

Lo scopo principale quindi sembra essere quello della costruzione, sviluppo e controllo della rete sociale. Un modo, insomma per allargare il proprio “giro” di amicizie.
Un altro studio, stavolta statunitense, ha però messo in luce come gli utenti di facebook tendano a sviluppare in misura maggiore legami deboli, utili a condividere interessi e obiettivi, ma raramente caratterizzati da un coinvolgimento emotivo.
Naturalmente, tra i contatti di facebook ci sono anche quelli degli amici più cari, con i quali si condividono momenti reali di vita, ci si sente per telefono, si entra davvero in relazione. Ma gli altri? Che significato gli diamo?
Il minimo, se non inesistente coinvolgimento emotivo, potrebbe farci pensare a quanto facebook non ci aiuti a creare delle vere relazioni, caratterizzate cioè, da intimità e coinvolgimento emotivo.
E ancora di più ci deve fare pensare che la motivazione principale dell'utilizzo di internet sia proprio la ricerca di un'intimità emotiva.
L'intimità viene ricercata in luoghi sbagliati, e attuando comportamenti non esplicitamente diretti a quel fine. Si posta sulle bacheche, si condividono link, si aderisce ad eventi e gruppi, si accettano amicizie da persone mai viste o che si sono incontrate poche volte.
In questo modo il bisogno reale, cioè quello dell'intimità emotiva, non viene mai soddisfatto, e si alimenta in modo esagerato l'esigenza di quel comportamento che da l'illusione di avere contatti emotivamente significativi.
Quindi si continuano ad aggiornare status, bacheca, osservare le proprie reti sociali e altrui cercando di allargarle, senza mai avere la sensazione di essere gratificati. Si ha solo l'illusione di entrare in relazione e di far parte di una rete sociale “solida”. Ma perché lo facciamo? Qual è il reale bisogno che ci spinge a stringere e “coltivare” i contatti?
Sempre in un’ottica di promozione del benessere psicologico sarebbe utile fermarsi e rispondere a queste domande, per capire meglio il nostro comportamento, stare più vicini ai nostri reali bisogni e prevenire il consolidamento di pensieri e comportamenti “disadattivi” che riguardano noi e gli altri.
Pensieri che ci rimandano un'idea di noi non adeguata e che ci fanno pensare al mondo come a qualcosa di troppo difficile e pericoloso, perdendo la fiducia negli altri e nelle relazioni reali, concrete. Potrebbe capitare di pensare a queste cose, per esempio dopo situazioni negative, in cui i pensieri stessi influenzano la nostra lettura della realtà.
Andando a “rifugiarsi” in contesti protetti e controllabili da un punto di vista relazionale, come facebook, la nostra lettura della vita, della realtà esterna, potrebbe rimanere tale, perché, i contatti, le amicizie le gestiamo soltanto e non le VIVIAMO!
Non ci diamo quindi la possibilità di smentire convinzioni errate rispetto al mondo esterno e alle persone che potremo incontrare e vivere “fuori”. Ci accontentiamo dei contatti virtuali e ci illudiamo di poter costruire con loro un legame profondo.

Bibiografia

Joinson, A. N. (2008), “Looking at, looking up or keeping up with people?: Motives and use off Facebook”. In Proceeding of the twenty-sixth annual SIGCHI conference on human factors in computing systems. 5-10 aprile, Firenze.

Ellison N., Steinfield C., Lamps C., (2007) ” The Benefits of Facebook Friends: Social Capital and College Students' Use of Online Social Network Sites

Costanti S. (2008), “Internet quale realtà”.

martedì 22 giugno 2010

L'infertilità psicogena nella coppia

Articolo della Dott.ssa Ameruoso pubblicato su Benessere4u.it, il Social Network su Psicologia, Salute e Benessere.



L'infertilità psicogena nella coppia

L’infertilità psicogena è divenuta una problematica molto diffusa ed è attualmente considerata una concausa della carente espansione demografica.
La fertilità è la capacità degli esseri viventi di riprodursi, di generare individui normali e dotati di caratteristiche peculiari della specie di appartenenza. La mancanza o la perdita di tale funzionalità, porta ad una condizione di sterilità (O.M.S., l’A.F.S.).
La sterilità fisiologica si differenzia, dalla infertilità relativa al partner in cui non vi è riscontro di cause organiche anche se, tale condizione, persiste nel tempo. Può capitare che, se i due coniugi si separano, costituendo così due nuovi nuclei familiari, tale problematica viene meno.

La sterilità e l’infertilità sono dovute a cause differenti: la prima è sintomatica, la seconda è asintomatica da un punto di vista medico.
Uno dei fattori determinanti è l’età: sia nella donna che nell’uomo a determinare la capacità di concepire è il tempo.

Tanto la volontà di avere un figlio si manifesta tardivamente, tanto minore sarà la possibilità di portare a termine questo progetto. In Europa, l’età del primo concepimento si è innalzata. L’incremento di un progressivo calo delle nascite nel nostro paese, ha fatto pensare che ciò derivasse da un fattore legato all’aumento dell’infertilità e della sterilità.
I dati ISTAT italiani considerano, esclusivamente, gli indici di natalità e di fecondità senza un’analisi precisa dell’incapacità al concepimento: le nascite per 100 abitanti (indice di natalità) sono passati da 29,4 negli anni 1930-1932, a 10,2 nel periodo 1984-1986, così come la fecondità totale, cioè i nati vivi per 100 donne in età riproduttiva, sono passati da 94,3 (1930-1932), al 41 (1984-86). La variazione attuale (in incremento) è dovuta principalmente a malattie infettive presenti prevalentemente nel terzo mondo.
In questo contesto, però, è difficile stabilire la percentuale di “responsabilità” in quanto i fattori contribuenti al manifestarsi di questa problematica, sono diversi.
In circa il 50% degli altri casi, il portatore di infertilità è l’uomo.
Alcuni studi, che vertono sulla produzione di un contraccettivo maschile che non inibisca il desiderio, hanno accennato all’ipotesi, secondo la quale, una sostanza proteica prodotta dal testicolo e chiamata “inibina”, possa bloccare la produzione di spermatozoi. Questa proteina regola la produzione di FSH grazie ad un meccanismo di feedback sull’ipotalamo e sulla ghiandola pituitaria, da essa stessa attivato. Di fatto però, le cause organiche che contribuiscono o determinano la sterilità, sono differenti: il fattore stress psichico e/o mentale ha un importante ruolo sulla risposta fisiologica ormonale.
In conseguenza di ciò, nella donna, l’innalzamento di prolattina e la riduzione dell’LH causano l’anovulazione, ipogonadismo ed amenorrea, mentre, nell’uomo, l’ipogonadismo con un conseguente abbassamento dei livelli di testosterone e gonadotropine.
Anche il tabagismo e l’abuso di sostanze alcoliche, sono determinanti nella riduzione della attività nemaspermica nell’uomo mentre, nella donna, si verifica un effetto antiestrogeno.
Inoltre, alcune esperienze fortemente stressogene quali l’isolamento, la prigionia, l’internamento in campi di concentramento o di guerra, come la storia ed anche la letteratura psicoanalitica testimoniano, comportano una condizione di azoospermia o oligospermia nella condizione fisica maschile.
L’ infertilità invece, è primaria se, dopo un anno (o più) di tentativi di concepimento, non c’è stato alcun esito positivo. E’ secondaria se insorge dopo una gravidanza coronata da successo.
Secondo la Bydlowski, i fattori che ostacolano la procreazione, sono da attribuire ad un’organizzazione inconscia difensiva contro tale eventualità: post- traumatica, nevrotica, come conseguenza di disturbi del comportamento alimentare o di perturbazioni dell’immagine corporea.
L’evento traumatico (un aborto spontaneo o provocato, una morte fetale, una gravidanza extrauterina) o una fantasia legata ad un vissuto interiore, determinato ad una esperienza (uno stupro, la morte della partoriente o quella del bambino) raccontata da altre donne all’interno della famiglia stessa (per es. madre, nonna, zia), sono sufficienti a definire la rinuncia alla maternità.
Gli aspetti nevrotici dell’infertilità sono invece, effetto di un meccanismo d’inibizione alla procreazione conseguentemente ad una fissazione in una fase specifica dello sviluppo psico-affettivo. Inoltre, una relazione fortemente conflittuale tra madre e figlia comporta, come conseguenza inconscia, il “rifiuto” di concepire.
Anche il disturbo alimentare (anoressia, bulimia), preesistente alla scoperta dell’infertilità, che implica una distorsione dell’immagine corporea rappresentata mentalmente, ostacola la capacità di generare.
Con questi presupposti, la possibilità di rendere concreto sul piano biologico e di realtà, la manifestazione del proprio funzionamento fisiologico, viene a perdersi.
Spesso e volentieri, le coppie, sane dal punto di vista organico, restano sconcertate di fronte all’incapacità di attribuire una spiegazione tangibile a questa problematica.
Freud, a proposito della generatività, si riferisce al concetto di “volontà dell’individuo di sopravvivere alla morte”. Il proprio figlio, cioè, viene vissuto come proiezione narcisistica di sé ma anche, come attestazione del proprio funzionamento fisiologico e biologico che permette la continuità della specie.
Nel contesto sociale, il figlio dà conferma della propria identità sessuale.
La fase della “generatività” di cui parla Erikson, si manifesta attraverso la nascita e la crescita dei figli.
L’essere umano si contraddistingue infatti, dalle altre specie poiché, la sua capacità fecondante, è contraddistinta da una forte connotazione psicologica ed assume anche un profondo significato sociale. Con la maturità sessuale (evento puberale) emerge la fantasia riguardo alla procreazione. Questa capacità, principalmente legata al proprio genitore durante l’infanzia diviene, in seguito, una consapevolezza ed un desiderio dell’adolescente sessualmente maturo. È proprio durante tale periodo che l’individuo ottiene ulteriori conferme della propria identità di genere (maschio e femmina) e il ruolo (maschile e femminile).
Il desiderio di un figlio e la successiva realizzazione, sul piano di realtà, di questa iniziale fantasia, diviene in età adulta, una conferma della propria capacità rigenerativa ridefinendo la propria identità di genere. Questo vale sia per la donna che per l’uomo.
La gravidanza quindi, assume una sorta di segnale di prestigio.
Il bambino rappresenta la continuità, il significato dell’esistenza umana ma, nel caso in cui vi è impossibilità a concepire, viene a mancare.
È importante che la coppia elabori sul piano personale le componenti emotive legate al lutto della infertilità, concedendosi un’ulteriore e significativa possibilità di vivere la splendida esperienza legata alla genitorialità.


Riferimenti bibliografici

Ameruoso E. (2006). L’esperienza adolescenziale in coppie portatrici di infertilità psicogena: un’ipotesi di ricerca. II Scuola di Specializzazione dell’Università “La Sapienza”. Roma: Tesi di Specializzazione.
Ammanniti M. (1993). Gravidanza e percezione del sé. In Maternità e Tossicodipendenza (a cura di) Malagoli Togliatti M., Mazzoni S. Milano: Giuffrè.
Bydlowski M. (2003). Facteur psychologiques dans l’infertilité feminine. In Gynécologie Obstétrique & Fertilité, 31: 246-251.
Morelli G. (1996). Il ruolo dei fattori psicologici nell’etiopatogenesi dell’infertilità maschile, In Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, 28/29: 45-48
Scatoletti B. (1996). Aspetti psicologici nella diagnosi e cura dell’infertilità di coppia: una rassegna della letteratura rec

giovedì 10 giugno 2010

Bullismo, dai luoghi comuni alle azioni efficaci

Articolo a cura del Dott. Zenilli pubblicato su Benessere4u.it , il social network su salute e benessere psicologico.

L'articolo, a partire da alcuni luoghi comuni sul bullismo, descrive alcune caratteristiche del fenomeno e alcune delle azioni ritenute più efficaci per contrastarlo.

benessere4u.it  bullismo


Ad un incontro sul bullismo aperto ai genitori e insegnanti qualche anno fa, in un piccolo Comune del Nord Italia, si alzò un signore e chiese di che cosa in realtà si stesse parlando, i prepotenti in fondo ci sono sempre stati e di prepotenze se ne compiono ogni giorno. Secondo questo signore la soluzione sarebbe stata molto semplice, insegnare a tutti i bambini perseguitati a fare a pugni e se non ne fossero stati capaci allora pazienza, dopotutto vanno avanti solo i più forti.

“Cos’è per voi il bullismo?” abbiamo chiesto anche ai ragazzi nelle scuole? “É quando uno si crede più grande e se la prende con i più piccoli” è stata una delle risposte, oppure “quando uno è simpatico e fa gli scherzi, allora gli dicono “er bullo” è stata un’altra. In un incontro in classe, una prima media, durante un primo giro di opinioni venne fuori che il bullo è anche un personaggio simpatico, che fa ridere e che in fondo si da solo un po’ di arie, insomma “er bullo”. In un’altra occasioni mi ritrovai in una classe terza di una scuola media della provincia di Milano per parlare di bullismo e già dalla disposizione dei banchi ebbi l’impressione che qualcosa non andava. C’era una ragazzina in quella classe, guance paffute, occhiali e lunghi capelli lisci. Nello sguardo però nascondeva un misto fra tristezza e rabbia, e lo dimostrava pungolando e provocando chiunque le capitasse a tiro, con un sorrisetto di soddisfazione che si tramutava in un’espressione imbronciata quando sistematicamente per reazione veniva esclusa e isolata dall’intero gruppo classe. Mentre tutti i banchi erano sistemati a coppie, il suo era l’unico da solo, attaccato a quello dell’insegnante come un satellite alla deriva. Era talmente detestata dai suoi compagni di classe che tutti si rifiutavano di toccarla e una volta disposti in cerchio nessuno volle mettersi al suo fianco tant’è che attorno a lei ci fu il vuoto. Alla fine del’incontro mi feci raccontare da lei come viveva tutto questo e la ragazzina scoppiò in lacrime dicendo che quello era il periodo più brutto della sua vita, che non aveva amici, che tutti la odiavano e che l’unica cosa che la teneva viva era la speranza che l’anno successivo, in una nuova scuola e con nuovi compagni di classe le cose, chissà, magari sarebbero cambiate. L’insegnante parlandomi di lei mi riferisce che si è inserita a metà dell’anno nella loro scuola e che da subito ha mostrato segni di insofferenza verso i suoi compagni di classe con atteggiamenti provocatori e dispettosi. A mano a mano è stata quindi allontanata e ciò che le stava capitando, secondo l’insegnante, era tutto sommato la conseguenza delle sue azioni. Arriviamo poi a parlare dei recenti fatti di cronaca, l’aggressione del ragazzino di 12 anni ferito alla milza da due compagni di scuola a Crotone; lo studente disabile di Torino, deriso e picchiato dai compagni che lo riprendevano col telefonino; la ragazza marocchina di 17 anni perseguitata a scuola fino al punto di scappare di casa e scomparire per tre giorni.

Questi sono solo alcuni dei casi recentemente portati alla ribalta nelle cronache dei quotidiani. Ma il fenomeno del bullismo non deve preoccupare solo quando diventa tragedia di portata nazionale perché in realtà nella maggior parte dei casi esso c’è ma non si vede. Qualcuno spiega il fenomeno mediante le teorie sulle famiglie sbandate e qualcun’altro responsabilizza la scuola che non insegna più certi valori. Vediamo quindi di capire di cosa si tratta e cosa si può fare per riconoscerlo e intervenire. Intanto, per cominciare, la definizione: “il bullismo è un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare. Spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittima”.

Da qui le tre regole d’oro per distinguere tale fenomeno da altre forme di comportamento aggressivo e dalle semplici prepotenze:

1. il comportamento aggressivo, fisico, verbale o psicologico, viene messo in atto volontariamente e consapevolmente, con l’intenzione di arrecare danno;

2. sebbene anche un singolo episodio può essere considerato una forma di bullismo, in genere il comportamento aggressivo viene messo in atto più volte e si ripete quindi nel tempo;

3. tra il bullo e la vittima c’è una differenza di potere, dovuta alla forza fisica, all’età o alla numerosità quando le aggressioni sono di gruppo, la vittima quindi spesso non è in grado di difendersi.

Da queste semplici indicazioni potremmo rispondere ad alcuni tra i luoghi comuni più diffusi sul bullismo, alcuni dei quali già espressi sopra, secondo i quali ad esempio: “la vittima deve imparare a difendersi” (come abbiamo visto però la condizione non è di parità ma di disuguaglianza quindi chi subisce non può o non sa come difendersi) oppure “certe volte le vittime se lo meritano” (in questo modo quindi si legittima il bullismo come forma di giustizia nei confronti di chi da noia) o infine “non era una prepotenza, era solo una ragazzata” (questo è un buon metodo per rinforzare il comportamento aggressivo che oltre a non essere punito viene anche valutato simpaticamente come lo studente di prima quando citava “er bullo”).

A proposito della frase “il bullismo c’è ma non si vede”, molti sono i casi in cui si crede che nella scuola in cui si insegna o in cui si manda il proprio figlio queste cose non possano avvenire. Questo accade perché si crede erroneamente che l’unica forma di bullismo sia quella fisica. In realtà oltre a questa, che gli esperti inseriscono nel bullismo diretto e che comprende azioni come picchiare, spingere, far cadere, calciare ecc. ne esistono altre. Nel bullismo verbale, forma sempre diretta, si utilizza la parola per recare danno alla vittima, ad esempio con offese o prese in giro insistenti e reiterate. Nel bullismo indiretto invece attraverso comportamenti non direttamente rivolti alla vittima, si giunge alla sua esclusione e al suo isolamento attraverso la diffusione ad esempio di pettegolezzi e dicerie oppure al rifiuto continuato di esaudire le sue richieste. Mentre il bullismo fisico è prevalente fra i maschi, quello indiretto lo è fra le femmine mentre quello verbale coinvolge tutti e due i sessi allo stesso modo. Con l’aumentare dell’età e del grado di scuola si passa da forme dirette a forme indirette di bullismo. Che fare allora? Il bullismo è un fenomeno sociale e complesso e per essere compreso e affrontato è necessario un intervento che si rivolga a tutti i suoi protagonisti. Esistono diversi progetti di prevenzione al bullismo nelle scuole che prevedono la formazione degli insegnanti, si può prevenire il bullismo introducendo metodi didattici di tipo cooperativo, prevedendo percorsi di educazione affettiva, sostegno psicologico alle vittime, modelli di supporto fra pari. Le famiglie dal canto loro devono abbandonare ogni atteggiamento di delega e collaborare attivamente alla costruzione di una scuola a misura di ragazzo, colloquiando con gli insegnanti e stimolando un confronto sul grado di benessere dei figli oltre che sul livello didattico raggiunto. Vanno rinforzati, inoltre, tutti i comportamenti a favore della socialità con riconoscimenti di tipo affettivo, verbale e non solo materiale. Particolare attenzione va data a tutti quei segnali che potrebbero essere indicatori del problema: eccessiva timidezza, mancanza di amicizie significative, rifiuto di andare a scuola, isolamento nelle ore di ricreazione, richieste continue di denaro senza spiegazioni, sintomi psicosomatici (mal di testa, mal di pancia..) fino a segni evidenti e ripetuti di lotta (lividi, graffi..). Si dovrebbe evitare di bersagliare i figli di domande indiscrete e imbarazzanti, si potrebbe tuttavia aprire il discorso raccontando storie e aneddoti magari legati ad esperienze personali. L’importante è far sentire che se ne può parlare ed evitare di esprimere giudizi che inibirebbero il ragazzo o la ragazza. Purtroppo, o per fortuna, il bullismo non riguarda solo due persone che non si sopportano ma l’intero tessuto sociale che li circonda ed è solo agendo su questo che il fenomeno e non solo il singolo problema (che ne è solo la manifestazione) si potrà prevenire prima che diventi un fatto di cronaca.


BIBLIOGRAFIA
SHARP S., SMITH P.K. (1995), Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Erickson, Trento
D. OLWEUS (1996) “Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono” Giunti, Firenze.
E. MENESINI (2003) “Bullismo: le azioni efficaci nella scuola” Erickson, Trento.
A cura di NICOLA IANNACCONE (2005) “Stop al bullismo. Strategie per ridurre i comportamenti

martedì 8 giugno 2010

TSO alle madri in baby blues? Ma mettiamoci chi ha fatto questo proposta!

Dopo il tragico evento di Passo Corese la Sigo (Società Italiana Ginecologia e Ostetricia) propone un TSO per le madri con Depressione Post-Partum. Ma a questo punto riapriamo direttamente i MANICOMI, mettiamole in stanze con le sbarre alle finestre... Così si evitano tragedie analoghe! CHE AMAREZZA!!!! Invece di sparare queste proposte offensive e medioevali, sarebbe invece opportuno stanziare più risorse economiche per i servizi di welfare mirati a fornire sostegno alla famiglia ed alle neo-mamme. Valorizzare le figure professionali deputate, ad esempio lo PSICOLOGO, investire sulla famiglia invece di disgregarla e dilaniarla, lasciando da sola ...la donna. Questo paese è capace solo di soluzioni mostruose e propaganda emotiva.

Sostieni la rivolta contro questa proposta medioevale che la Sigo (Società
italiana di ginecologia e ostetricia) sta presentando al Ministero della Salute! Mettiamoci i proponenti in TSO (terapia sanitaria
obbligatoria)! Alle Madri servono supporto, servizi e professionalità,
non delle sbarre ad una finestra! Un paese senza vergogna!!!

http://www.facebook.com/pages/TSO-alle-madri-in-baby-blues-Ma-mettiamoci-chi-ha-fatto-questo-proposta/125716704127100?v=wall

giovedì 27 maggio 2010

Anginofobia

Articolo della Dott.ssa Scrocca pubblicato su b4u, il
Social Network su Psicologia, Salute e Benessere.


Anginofobia

Hai il terrore di strozzarti? Di morire soffocato/a mentre mangi? Mastichi, più e più volte, prima di buttare giù il boccone? Selezioni scrupolosamente i cibi? Te ne stai chiuso/a in casa e rinunci alle cene con gli amici?

Non sei folle!!!! soffri di anginofobia … e puoi guarire.

Che cos’è l’anginofobia?

E’ la paura irrazionale, di morire soffocati da qualcosa che vada di traverso, come cibo, pillole e addirittura liquidi e saliva.

La paura non è relativa tanto allo stimolo in sé del deglutire, quanto piuttosto al terrore delle conseguenze date dal farlo.

Target

Colpiti da anginofobia, sono sia bambini che adulti, con maggioranza di questi ultimi. Uomini e donne senza distinzione (sebbene la percentuale delle donne superi quella degli uomini).

I primi sintomi di solito si manifestano nella fanciullezza o nella prima adolescenza e possono manifestarsi in un’età più giovane per le donne rispetto agli uomini.

Come nasce?

Le persone che soffrono di questo disturbo, in genere hanno sperimentato in prima persona brevi esperienze traumatiche di soffocamento durante i pasti o semplicemente è capitato loro di osservare persone esposte al trauma.

o Tale prima esperienza da luogo, come sa bene chi ne soffre, a una complessa sintomatologia post traumatica (ansia, evitamento, incubi notturni in cui la persona rivive il trauma o l’esperienza temuta, depressione, isolamento sociale, perdita di peso, senso d’incapacità).

o Da quel primo episodio fatale, ecco che nella persona, vanno a innescarsi a livello cognitivo, emotivo e comportamentale, tutta una serie di reazioni e di tentate soluzioni, che anziché alleviare e risolvere il problema, va ad alimentarlo, dando luogo a un circolo vizioso disfunzionale e patologico.

Il quadro sintomatologico si caratterizza per la presenza di:

· Pensiero frequente “ora mi soffoco”. Si è ossessionati da tutto ciò che di più terribile potrebbe succedere durante i pasti.

· Vissuti di ansia anticipatoria e al momento dei pasti. Ansia che spesso evolve in veri e proprie forme di attacchi di panico.

· Comportamenti di evitamento, quali tentate soluzioni.

Evitamento del cibo nemico:

Con le migliori intenzioni la persona, pur di non rinunciare ad alimentarsi, cerca di rendere il momento del pasto il meno sofferente possibile, inizia così a eliminare dalla propria dieta cibi ritenuti pericolosi (carne, salumi, pasta, verdure).

I comportamenti evitanti, sempre presenti nell'anginofobia, impediscono a chi ne soffre di non confermare le proprie ipotesi (se mangio un pezzo di pane, soffocherò, se ingoio una pasticca, soffocherò ecc.) e quindi, permangono nel tempo e a lungo andare contribuiscono non solo a far persistere ma a fare aggravare i sintomi.

In che modo?

La reazione di evitamento, deriva da una credenza disfunzionale del soggetto, in questo caso, la pericolosità che egli attribuisce a uno specifico alimento o a una situazione, per cui:

· Ogni qualvolta che, eviterò di mangiare un cibo perché ritenuto pericoloso, non farò altro che andare ad agire su questa credenza, rendendola vera e rinforzandola.

· Più eviterò di mangiare qualcosa, più confermerò a me stesso la pericolosità del cibo evitato e più avrò la convinzione che quel cibo sia pericoloso e quindi da evitare.

Così facendo aumenteranno le mie paure, la mia ansia e come in un’escalation, andrò a restringere sempre di più la mia alimentazione fino al punto in cui non sarò più in grado di concedermi cibi che prima, pur con tanta sofferenza e difficoltà riuscivo a mangiare.

Ecco che la persona che soffre di anginofobia si ritroverà, pur mosso dalle sue migliori intenzioni, a essere in grado di poter mangiare esclusivamente alimenti ben selezionati e facilmente deglutibili come: omogeneizzati, passati di verdure e liquidi, fino al momento in cui anche il semplice deglutire, acqua e succhi di frutta, diventerà difficile se non impossibile.

Evitamento di situazioni sociali:

L’anginofobia è una vera e propria patologia che va a invalidare il normale svolgimento della vita sociale, relazionale e lavorativa di una persona. I soggetti che ne sono afflitti, vivono un vero e proprio dramma quotidiano, in particolare al momento dei pasti: “Mangiare per la strada, in compagnia di amici o con i colleghi di lavoro durante la pausa pranzo, può diventare un problema serio. Avere l’ansia di avere un bicchiere d’acqua sempre a disposizione e bere frequentemente per deglutire, può essere imbarazzante”.

Come tentata soluzione a questo dramma, la persona inizia a evitare tutte quelle situazioni temute, in quanto possibili fonti di disagio e di ansia.

Tali comportamenti di evitamento procurano, di fatto, un immediato senso di sollievo e di benessere, al quale subentra tuttavia, un forte e costante senso d’incapacità, frustrazione e di umiliazione.

L'effetto dell'evitamento in questo caso è, infatti, quello di confermare la credenza della persona di non essere in grado di affrontare certe situazioni, confermandone dunque la pericolosità e preparando in tal modo, l'evitamento successivo.

Ne consegue un graduale isolamento sociale, che conduce senza via di scampo a forme di depressione gravi.

L’anginofobia frequentemente si associa all’agorafobia, al disturbo ansioso generalizzato, alla fobia sociale, alla depressione o al disturbo oppositivo.

Trattamento

Una volta escluse cause di competenza strettamente medica (in questi soggetti spesso è erroneamente diagnosticata una disfagia, cioè un disturbo della deglutizione o un’iperiflessia faringea) il trattamento di elezione è la psicoterapia.

Un approccio che si è dimostrato valido nel trattamento dell’anginofobia e nelle fobie in generale è la Psicoterapia Breve Strategica.

Tale approccio parte dal presupposto che ciò che determina la costituzione della forte sintomatologia fobica non è l'evento iniziale, ma ciò che il soggetto mette in atto per evitare la paura, ossia le tentate soluzioni escogitate dalla persona nel tentativo di sfuggire allo scatenarsi delle reazioni emotive e somatiche proprie della paura. Questo induce al costituirsi della paura a un livello superiore di gravità.

Per rompere il sistema percettivo-reattivo patogeno, il terapeuta ricorre a suggestivi stratagemmi, costruiti ad hoc, che portano la persona a fare concrete esperienze di superamento del problema senza che questi ne sia consapevole. La consapevolezza

arriverà infatti ad esperienza fatta, quando il soggetto non potrà fare altro che prendere atto

d'aver fatto esattamente ciò che aveva ritenuto impossibile fare fino a quel momento

Considerati i tre livelli della terapia, ossia la strategia utilizzata, l'interazione comunicativa e la relazione paziente-terapeuta, nei pazienti fobici possiamo considerare praticamente irrilevante quest'ultima (decisamente importante in altri tipi di disturbo) sottolineando al contrario quanto sia fondamentale la strategia utilizzata e la modalità comunicativa con cui questa viene espressa.

Ciò di cui hanno bisogno i pazienti fobici, è infatti un "tecnico specializzato" in grado di "cavalcare" la loro paura e che, con manovre velate, indirette e cariche di suggestione, li possa condurre a cambiare senza rendersene conto.

Il primo passo terapeutico è, per questo motivo, quello dell'antica saggezza cinese di "solcare il mare all'insaputa del cielo" (Anonimo, 1990), ossia di spostare l'attenzione del soggetto in maniera tale da portarlo, a sua "insaputa", a superare l'ostacolo vissuto come insormontabile e, di conseguenza, ad aprire la strada a diverse forme di rappresentazione della realtà e a nuove modalità comportamentali.

Con questo tipo di terapia, solitamente lo sblocco avviene già entro le prime cinque sedute. La remissione completa della sintomatologia avviene entro il decimo incontro.

Non si tratta di un percorso semplice: costanza, determinazione e volontà di voler uscire dal problema, sono condizioni irrinunciabili al fine di un esito positivo

Bibliografia:

· Rivista Europea di Terapia Breve Strategica e Sistemica N. 1 - 2004

· Nardone G. “Paura, panico, fobie. la terapia in tempi brevi” Ponte alle Grazie - 2007

venerdì 14 maggio 2010

Contemporanea-mente omosessuali

Articolo a cura della Dott.ssa Lazzari, pubblicato su B4U, network di salute e benessere psicologico



Contemporanea-mente omosessuali

La diversità e le differenze sono parte integranti della nostra quotidianità avvicinandoci o allontanandoci dall'altro. L'omosessualità in particolar modo quella femminile rimane sempre sullo sfondo alimentando stereotipi e fraintendimenti.

Nel 1974 l’America Psychiatric Association, indisse un referendum tra i propri iscritti cercando di comprendere se l’omosessualità, fosse ancora considerata come una malattia mentale. Il 59% degli iscritti votò a favore dell’abolizione portando, quindi per la prima volta, a considerare l’omosessualità come una variante del comportamento umano e non più, come una patologia da curare.

Ancora oggi si trovano molti professionisti che alle richieste allarmate dei genitori, propongono interventi di “correzione” dell’orientamento sessuale con il risultato, spesso, di rinforzare un senso d’estraneità alla propria persona, senso di colpa e di rifiuto, verso se stessi.
Quando si parla d’identità sessuale e di genere solitamente si fa molta confusione e si utilizzano numerosi stereotipi. Per comprenderci, con il termine d’identità di genere ci si riferisce alla percezione che abbiamo di noi stessi definita non solo da come ci sentiamo ma anche dalla presenza di caratteri sessuali definiti. Questo ci porta a definirci come maschi o femmine. In merito all’identità sessuale invece si fa riferimento al così detto gusto sessuale che può essere, ossia orientato verso persone dello stesso sesso, eterosessuale ossia orientato verso persone del sesso opposto o bisessuale, ossia senza una netta differenziazione tra i due sessi. Ormai molti studi hanno dimostrato che c’è un continum tra lo sviluppo dell’identità sessuale così detta normale ossia quella eterosessuale e quella omosessuale poiché l’oggetto del desiderio sessuale è indipendente dall’identità di genere. Dunque il pensare all’omosessualità come un arresto dello sviluppo psichico non sembra essere supportata dalle più recenti ricerche in campo psicologico.
E mentre la comunità gay italiana, decide di dichiarare in modo forte l’inaccettabilità di comportamenti di razzismo, costituendosi parte civile nel procedimento contro gli aggressori della coppia gay, ferita durante l’estate, sembrano ancora presenti necessità ideologiche e morali che giustifichino la diversità delle persone omosessuali. In particolar modo parlare del mondo femminile e della omosessualità femminile, sembra essere ancora piuttosto complicato, difficile da definire. A partire da Freud che considerava come causa dell’omosessualità femminile, un irrisolto passaggio nella fase edipica cosa che, avrebbe destinato la giovane fanciulla a divenire lesbica, molti teorici e approcci, hanno sviluppato tra le loro tecniche, terapie riabilitative. In particolar modo, diversi terapeuti omosessuali anche di formazione psicoanalitica, hanno sentito l’esigenza di organizzare degli interventi in modo tale da rispettare i propri pazienti e allo stesso tempo, la propria identità sessuale. L’integrazione tra esperienze professionali e personali, con la pratica clinica, ricerca e strutture teoriche di riferimento, consentono di esplorare il concetto della sessualità, entrando in punta di piedi nel vissuto della persona, ed iniziare il racconto di sé.
In relazione all’esperienza della pratica clinica, è possibile affermare che l’identità lesbica, è una normale variante della sessualità. Questo significa anche che contrariamente a quanto la cultura spesso ci imponga, non esiste necessariamente un’alterazione dello sviluppo psicologico nelle persone omosessuali sia uomini che donne. Infatti, non esiste sul piano psicologico in termini di sviluppo, alcuna differenziazione tra le caratteristiche di personalità, background familiare, psicopatologie che possano effettivamente determinare una differenziazione tra due donne una eterosessuale ed una omosessuale.
Culturalmente incappiamo spesso in stereotipi che considerano la donna lesbica come mascolina o riluttante al senso comune di femminilità. In realtà molte donne lesbiche così come quelle eterosessuali tengono molto all’aspetto estetico e alla loro femminilità. Piuttosto la difficoltà maggiore non è da riscontrarsi nell’acquisizione di strategie di azione e di comportamento, quanto nella frustrazione spesso molto pesante da sopportare dell’essere considerate come differenti e per questo marginalizzate nel caso in cui decidano di fare caming out ossia di comunicare la propria identità sessuale.
Così come per le donne eterosessuali anche le donne lesbiche presentano differenti sfaccettature nella definizione di loro stesse, in relazione ai propri comportamenti, al ruolo, alle caratteristiche di personalità, alle loro origini e alle proprie esperienze di vita. Ad esempio alcune donne si sono sposate e sono diventate madri per poi scegliere una relazione omosessuale, altre donne invece possono aver vissuto la propria identità sin dalle prime relazioni affettive. Anche gli approcci psicoanalitici più avanzati considerano lo sviluppo omosessuale come un normale sviluppo della identità sessuale.
In particolar modo L. Horowitz descrive una serie di passaggi nello sviluppo dell’identità lesbica.

  1. Una prima fase di scoperta la persona che scopre il proprio interesse per la persona dello stesso sesso si può sentire alienata, sola e stigmatizzata. In molti casi, il tentativo di reprimere i propri sentimenti sembra essere la tecnica migliore lasciando così lo spazio a confusione e sofferenza che si accompagna alla crescente necessità di accettarsi.
  2. Nella seconda fase che l’autrice definisce come fase di esplorazione, la donna sperimenta nuovi comportamenti adattivi e positivi che le consentiranno di entrare nella fase successiva ossia quella della prima relazione.
  3. In seguito la necessità di integrare la propria identità sarà caratterizzato da una fase di complesso sviluppo. Generalmente è in questa fase che le persone omosessuali trovano un riferimento importante in associazioni o militanza politica che consente di viversi liberamente secondo la propria identità.

Non possiamo però certamente pensare che questi passaggi si susseguano facilmente in tutte le donne che riconoscano la propria omosessualità. Infatti, la serenità e la facilità con cui questo avviene, dipende molto dalla relazione con la famiglia di appartenenza, i supporti sociali, la presenza di riferimenti positivi nella vita della persona.
Anche le relazioni interpersonali gratificanti, capaci di dare supporto in caso di necessità e le proprie risorse individuali, sono elementi fondamentali per affermarsi come persona. Soprattutto in quei contesti relazionali in cui non viene percepito il supporto necessario per la propria accettazione, la conquista della consapevolezza della propria identità sessuale, richiede molta energia psicologica ed in questi casi la determinazione con cui si affrontano le proprie scelte sessuali possono determinare non pochi stress che possono determinare un impatto profondo sulla propria personalità.
Le conseguenze quali comportamenti difensivi, modalità relazionali, vulnerabilità, e sindromi sintomatiche, sono da relazionarsi a come la donna si pone nei confronti della propria diversità in relazione agli altri. Ad esempio nella scelta del coming out può presentarsi da un lato un vissuto di liberazione e completa accettazione o dall’altra un effetto drammatico tale da determinare la manifestazione di disfunzioni e sintomatologie.
Le donne devono essere supportate nella narrazione del loro vissuto senza giudizio, alla scoperta della propria identità sessuale, esplorando il significato della loro esistenza e degli eventi che si susseguono in relazione alle proprie scelte.



Bibliografia:

American Psychological Association (1991), Bias in psychotherapy with lesbian and gay man (final report) Washington, DC, APA
Del Favaro R., Palomba M., (1996) Identità diverse, Edizioni Kappa, Roma
Giusti E., Lazzari A., (2005) Narrazione e autosvelamento nella clinica, Sovera edizioni, Roma
Goldstein E.D.; Horowitz L.C., (2003), Lesbian identity and contemporary psychotherapy, The Analytic Press, Inc.
www.ordinepsicologilazio.it rassegna stampa

giovedì 6 maggio 2010

LA SEXUAL ADDICTION: quando il sesso diventa dipendenza!

Articolo della Dott.ssa Sara Eba Di Vaio pubblicato su benessere4u.it . Discutine cliccando qui!

Quasi 4 milioni di italiani sono dipendenti da sesso, gioco e lavoro.
La dipendenza sessuale può essere definita come “una relazione malata con il sesso che ha lo scopo di permettere alla persona di alleviare lo stress, di fuggire dai sentimenti negativi o dolorosi, dalle relazioni intime che non è capace di gestire”. Questa relazione diviene il bisogno fondamentale rispetto al quale tutto il resto viene sacrificato, comprese le persone che vengono considerate solo come oggetti da usare

Quasi 4 milioni di italiani sono dipendenti da sesso, gioco e lavoro. Lo ha dichiarato l'ADUC (Associazione per i Diritti degli Utenti e Consumatori) sulla base di dati emersi dalla S.I.I.Pa.C, la Società italiana intervento patologie compulsive. Si tratta di vere e proprie dipendenze alla stregua di quelle più classiche da droga e alcol. Vengono definite “nuove dipendenze” e si caratterizzano per essere “dipendenze senza sostanza”.
Il lavoro e il sesso sono quelle più diffuse tra gli italiani. La cosiddetta “sex addiction”sembra essere tipicamente maschile.
In una ricerca effettuata dall’ISP (Istituto per lo studio delle psicoterapie) è emerso che oltre il 6% dei maschi italiani tra i 20 e i 45 anni manifesta i sintomi di una chiara dipendenza sessuale mostrandosi “ossessionato” dall'idea di fare l'amore il più spesso possibile e ricorrendo a tutti i mezzi immaginabili.
L'indagine è stata condotta su un campione di 1.300 uomini, eterosessuali, fra i 20 e i 45 anni, sulla base di un test diagnostico americano che valuta la scala di dipendenza dall'atto sessuale nei maschi.
La dipendenza da sesso si manifesta come un qualsiasi altro comportamento compulsivo che caratterizza le dipendenze: una modifica radicale delle naturali attività che portano gratificazione.
I dipendenti da sesso non sono più capaci di controllare le sensazioni e le attività orientate al sesso, incuranti della propria salute e sicurezza.
Ma poter fare una chiara e corretta distinzione fra una relazione sana e una patologica con il sesso appare ancora oggi molto problematico.

La dipendenza sessuale può essere definita come “una relazione malata con il sesso che ha lo scopo di permettere alla persona di alleviare lo stress, di fuggire dai sentimenti negativi o dolorosi, dalle relazioni intime che non è capace di gestire”. Questa relazione diviene il bisogno fondamentale rispetto al quale tutto il resto viene sacrificato, comprese le persone che vengono considerate solo come oggetti da usare.

La dipendenza da sesso generalmente si manifesta per stadi:

  1. preoccupazione: fantasie continue su prospettive o situazioni a sfondo sessuale
  2. ritualizzazione: una tipologia di attività sessuale o situazione è spesso stereotipata e ripetitiva
  3. compulsione: attività sessuale sfrenata incurante delle conseguenze negative e del desiderio di fermarsi
  4. disperazione: senso di colpa, rimorso, vergogna per l'incapacità di controllare il proprio comportamento
  5. altri problemi comportamentali, spesso legati a dipendenza da sostanze o disturbi dell'alimentazione

Mettendo insieme i contributi di vari autori è possibile delineare una serie di caratteristiche che permettono di avere una panoramica ampia e completa della dipendenza sessuale, primo fra tutti l’aumento, l’estensione e la durata di comportamenti che eccedono ciò che la persona desidera.

  • smodato aumento di tempo speso nella ricerca di esperienze sessuali, nel consumarle o nel riprendersi da esseincremento dell’attività sessuale in quanto l’attuale livello di attività non risulta più sufficiente
  • gravi conseguenze dovute ai comportamenti sessuali
  • incapacità di smettere nonostante le conseguenze
  • crescente desiderio o sforzo di controllare i comportamenti sessuali
  • trascuratezza nei confronti di importanti attività sociali, lavorative

Molti autori sono concordi nel ritenere che la dipendenza da sesso operante lungo tre livelli.
Primo livello: comprende comportamenti considerati come normali, accettabili o tollerabili.

  • masturbazione ossessiva
  • avere più partner
  • avere eccessive fantasie sessuali
  • fare sesso per telefono
  • utilizzare materiale pornografico
  • comportamento sadico o masochistico
  • travestitismo
  • feticismo

Molti dipendenti che si situano a questo livello credono di poter controllare i loro comportamenti e ritengono che non avranno conseguenze nella loro vita. Nonostante ciò possono ugualmente essere devastanti se messi in atto in maniera complusiva

Secondo livello: si estende fino a quei comportamenti che sono chiaramente vittimizzanti e per i quali sono previste sanzioni legali:

  • esibizionismo
  • voyeurismo
  • telefonate indecenti
  • comportamenti indecenti
  • comportamento sessuale in luogo pubblico
  • molestie sessuali es. al posto di lavoro
  • prostituzione
  • necrofilia

Terzo livello: l’elemento in comune ai comportamenti del terzo livello è la violazione di alcuni dei più significativi confini sociali.
 Violenza
 Molestie ai bambini e incesto
 sesso con adulti non coscienti (es. persone sotto droghe o con handicap)
 sesso con pazienti o dipendenti
La presenza di tre livelli non vuol dire che una persona non possa distruggere la propria vita al primo livello. Inoltre è raro che una persona metta in atto comportamenti sessuali compulsivi di un solo tipo.
I soggetti dipendenti da sesso hanno a volte alle spalle storie di abusi subiti in giovane età; i genitori di solito sono essi stessi dipendenti da sesso.
Lo stress gioca il ruolo di importante catalizzatore di comportamenti sessuali compulsivi, alimentando sensazioni di astinenza e fantasie a sfondo sessuale.

Il trattamento della dipendenza da sesso prevede generalmente le seguenti fasi:

  1. presa di coscienza da parte del soggetto di avere perso il controllo in ambito sessuale
  2. impegno all'astinenza sessuale
  3. ricostruzioni delle relazioni umane
  4. gestione dello stress auto aiuto

In ogni caso le finalità principali della terapia mirano a facilitare lo sviluppo di una sana capacità di intimità con se stessi e con gli altri e ad acquisire adeguate abilità di gestione degli eventi problematici che normalmente si presentano nella vita di una persona.

Bibliografia:
AVENIA F., 2009, Manuale sulla sexual addiction. Definizioni, diagnosi, interventi, Franco Angeli, Milano.
CARNES P., 1991, Don’t call it love. Recovery from sexual addiction, Bantam, New York
LAMBIASE E., 2001, La dipendenza sessuale. Modelli clinici e proposte di intervento terapeutico, Las, Roma
www.aduc.it
www.isp.it
www.siipac.it

martedì 20 aprile 2010

L' arte del rinviare

Articolo della Dott.ssa Capozza pubblicato su B4U. Discutine cliccando qui!

Chi ha tempo non aspetti tempo

Vi capita spesso di rimandare impegni importanti, commissioni, compiti o attività che richiederebbero solo pochi minuti? Vorreste cominciare una dieta, fare un po’ di esercizio fisico o impegnarvi a cambiare abitudini non salutari, ma poi non riuscite mai a trovare il momento per farlo? Vi ripromettete di mettere ordine sulla vostra scrivania, nei cassetti, negli armadi, ma continuate a procrastinare? Se vi riconoscete in una o più di queste situazioni, il vostro punto debole si chiama procrastinazione, ovvero la tendenza massiva, generale o settoriale, a rinviare al domani.

Il costante rimandare le cose da fare può diventare fonte di stress e mina il personale senso di autostima, facendo sentire la persona incapace e disorganizzata. Ci si sente in ansia o anche in colpa perché non si riesce ad imporsi di fare ciò che ci si è prefissati. Si prova una sensazione di sopraffazione ed impotenza dinanzi ad un’inerzia che sembra inspiegabile.

La tendenza a procrastinare, pervasiva od occasionale, può costare caro in quanto può impedire di raggiungere i propri obiettivi, generando un senso di frustrazione, inadeguatezza ed inefficacia.

Procrastinare richiede un notevole impiego di tempo, energia ed emotività che vengono dispersi crogiolandosi nel senso di colpa per aver rimandato quel che c’era da fare e che, se portato a termine, avrebbe richiesto molto meno tempo e minori energie di quanto temuto.

Le ragioni dell’indugio

La tendenza a rinviare non è un aspetto innato della nostra personalità o del carattere. È un’abitudine, un atteggiamento che, in quanto tale, può essere modificato. Da dove deriva questa tendenza che immobilizza la persona ed accresce il suo senso di disagio? Le motivazioni possono essere molteplici, ma tutte sono riconducibili al sentimento della paura.

Le paure che ci bloccano

Dietro la tendenza a rinviare si nasconde il desiderio di sottrarsi ad un compito, semplice o complesso che sia, in relazione ad una o più paure personali.

- PAURA DI NON ESSERE PERFETTI

Timore inconscio di non riuscire a realizzare un buon prodotto se non si è nelle condizioni ottimali per farlo, pertanto si attende di essere nel giusto stato d’animo, di avere la giusta quantità di tempo a disposizione, ovvero di essere nelle migliori condizioni possibili.

- PAURA DELL’IGNOTO

E’ la paura più comune. Si continua a rimandare una decisione od un’azione perché si sperimenta una sorta di sicurezza e conforto nel permanere all’interno della situazione nota in cui si vive, anche se dolorosa o difficoltosa.

- PAURA DEI GIUDIZI

Si rimanda il perseguimento di obiettivi importanti poiché si teme di essere giudicati negativamente dagli altri.

- PAURA DI COMMETTERE ERRORI

Si evita di affrontare un compito in modo da non doversi misurare con possibili personali errori, non riconoscendo nello sbaglio la potente valenza di apprendimento.

- PAURA DEL SUCCESSO

È una delle cause più sottili della procrastinazione. Le sue radici affondano in domande importanti per la vita dell’individuo. Si teme che il successo possa cambiare determinati aspetti dell’immagine di sé e della propria vita, che si vorrebbero invece salvaguardare.

- PAURA DI DOVER VIVERE AD ALTI LIVELLI

Variazione della precedente, tale paura subentra quando si ottiene un grande successo nel fare qualcosa di nuovo. Corrisponde al timore di dover dimostrare, dopo un successo, di rendere sempre ai massimi livelli.

- PAURA DEL CAMBIAMENTO

È un’apprensione naturale, ma portata agli estremi. I cambiamenti sono una delle maggiori fonti di stress e molte persone possono preferire di rinunciarvi, evitando di progredire nella vita con la speranza di eludere il terrore del cambiamento.

- PAURA DELLE TROPPE RESPONSABILITA’

Una delle maggiori paure che frenano le persone dal dare il meglio di sé. Suscita il timore di essere sopraffatti dai compiti e di perdere il controllo della loro gestione.

- PAURA DEI SENTIMENTI

Si tratta del timore di sentimenti non presenti ma futuri, ovvero di come potremmo sentirci intraprendendo una determinata azione. In tal caso, rimandare qualcosa viene percepito come soluzione per evitare di provare sentimenti negativi, come rabbia, senso di colpa ecc…

- PAURA DI FINIRE

Tale paura è legata sia al timore che, una volta terminato il proprio compito, ne vengano assegnati di nuovi (pertanto, si preferisce tirare per le lunghe il più possibile il primo lavoro) sia al timore di finire un lavoro quando è diventato piacevole o ha dato un nuovo senso alla propria vita.

- PAURA DI ESSERE RIFIUTATI

È un timore molto frequente che si basa sulla tendenza a prendere il rifiuto, su un qualcosa da noi prodotto, come un attacco alla nostra persona.

- PAURA DI PRENDERE LA DECISIONE SBAGLIATA

È la paura di decidere, nel timore che si faccia la scelta errata e si debba convivere con le relative conseguenze. Si cerca di rimandare finchè non si è sicuri che quella decisione sia quella più adeguata.

Riappropriamoci del nostro tempo

Il primo passo da fare per uscire dal tunnel della procrastinazione consiste in un lavoro di autoanalisi: cercare di identificare le paure sottostanti la personale tendenza a rinviare. Una volta riconosciute, riflettiamo su di esse e sulle loro possibili conseguenze. Ci renderemo conto che la paura è affrontabile e ridimensionabile e che, anzi, si può imparare qualcosa di prezioso da essa.

Il secondo passo consiste nell’ “ardua impresa” del cominciare. Alcune semplici, ma mirate indicazioni sul modus operandi di chi valorizza il suo tempo possono aiutare a rivalutare il proprio:

1) Programmate del tempo per programmare

Dedicate ogni giorno un po’ di tempo per la programmazione delle attività che dovrete svolgere, individuando quali sono gli strumenti necessari e le risorse che occorre attivare.

2) Scrivete liste

Fate una lista di tutte le attività che dovete svolgere, assegnando le relative priorità. Finchè i vostri progetti fluttuano nella mente, permangono nello stato di preoccupazioni informi. Scriverle consente di delinearle, dando loro forma e concretezza.

Fate una seconda lista dove annotare tutto l’occorrente (strumenti, materiali, ecc..).

3) Spezzate il lavoro in parti facilmente gestibili

Scomponete le vostre attività in piccole tappe. Assegnarsi delle piccole ricompense al conseguimento di ogni tappa motiva e sollecita il raggiungimento di essa.

4) Fissate delle scadenze

Determinate i limiti temporali entro i quali portare a termine i compiti

5) Concentratevi su un compito alla volta

In modo da non oberare la mente di lavoro né distrarla, disperdendo inutilmente energie mentali.

6) Affrontate per primi gli aspetti del lavoro più sgradevoli

Escogitate degli escamotages per alleggerirne il peso, es. ascoltare musica.

7) Confronto

Parlate agli altri dei vostri progetti o lavori e state ad ascoltarli. Scoprirete una fonte preziosa di consigli utili per ottimizzare il vostro impegno e facilitare il vostro compito.

Spesso il semplice parlare del problema, può far scaturire la soluzione.

8) Immaginazione

Dedicate qualche minuto per raffigurarvi mentalmente lo svolgimento del lavoro; immaginate ogni tappa del compito, ogni strumento necessario, ogni persona coinvolta. In tal modo, riuscirete ad avere un’idea d’insieme, ma allo stesso tempo dettagliata del lavoro da fare e potrete individuare quello che manca o ciò a cui non avete pensato.

Chi ben comincia è a metà dell'opera

SBARAZZARSI DELLE CIANFRUSAGLIE

Createvi un ambiente ordinato che stimoli all’azione ed alla produttività.

Disordine e confusione alimentano la procrastinazione.

Selezionate ciò che è importante (carte, documenti, fogli, appunti, cataloghi, abiti, ecc..) e gettate il resto. Cernita ed archiviazione sono indispensabili per garantire un buon inizio.

Le radici nell'educazione

Per favorire la crescita di un bambino che sappia divenire un adulto competente nella gestione del suo tempo, risulta essenziale il ruolo giocato dal contesto familiare. Da una parte, esso deve essere in grado di trasmettere modelli comportamentali positivi: il bambino deve poter vedere i suoi genitori affrontare adeguatamente i compiti che li riguardano. Dall’altra, l’educazione del piccolo deve potersi incentrare su una attenta ed empatica presenza affettiva dei genitori che garantisca al bambino lo sviluppo di un adeguato senso di autostima, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione della sua unicità, l’incoraggiamento ad assumersi responsabilità confacenti la sua età, sollecitando lo sviluppo della sua personale creatività nell’affrontare i compiti, il rinforzo dei comportamenti adattivi (come portare a termine i compiti richiesti) mediante approvazione e lodi o piccole ricompense. Il bambino che crede in sé, nel proprio valore e nelle proprie risorse apprende ad affrontare senza paura e serenamente tutte le attività che lo riguardano.

BIBLIOGRAFIA

- Rita Emmett, The Procrastinators’s Handbook, Walzer £ Co.,2001.

- Malcolm Slavin e Daniel Kriegman, The Adaptive designe of the Human Psyche, New York, Guilford Press, 1992.

- Mark Epstein, Thoughts without a Thinker, New York, Basic Books, 1995.