martedì 22 giugno 2010

L'infertilità psicogena nella coppia

Articolo della Dott.ssa Ameruoso pubblicato su Benessere4u.it, il Social Network su Psicologia, Salute e Benessere.



L'infertilità psicogena nella coppia

L’infertilità psicogena è divenuta una problematica molto diffusa ed è attualmente considerata una concausa della carente espansione demografica.
La fertilità è la capacità degli esseri viventi di riprodursi, di generare individui normali e dotati di caratteristiche peculiari della specie di appartenenza. La mancanza o la perdita di tale funzionalità, porta ad una condizione di sterilità (O.M.S., l’A.F.S.).
La sterilità fisiologica si differenzia, dalla infertilità relativa al partner in cui non vi è riscontro di cause organiche anche se, tale condizione, persiste nel tempo. Può capitare che, se i due coniugi si separano, costituendo così due nuovi nuclei familiari, tale problematica viene meno.

La sterilità e l’infertilità sono dovute a cause differenti: la prima è sintomatica, la seconda è asintomatica da un punto di vista medico.
Uno dei fattori determinanti è l’età: sia nella donna che nell’uomo a determinare la capacità di concepire è il tempo.

Tanto la volontà di avere un figlio si manifesta tardivamente, tanto minore sarà la possibilità di portare a termine questo progetto. In Europa, l’età del primo concepimento si è innalzata. L’incremento di un progressivo calo delle nascite nel nostro paese, ha fatto pensare che ciò derivasse da un fattore legato all’aumento dell’infertilità e della sterilità.
I dati ISTAT italiani considerano, esclusivamente, gli indici di natalità e di fecondità senza un’analisi precisa dell’incapacità al concepimento: le nascite per 100 abitanti (indice di natalità) sono passati da 29,4 negli anni 1930-1932, a 10,2 nel periodo 1984-1986, così come la fecondità totale, cioè i nati vivi per 100 donne in età riproduttiva, sono passati da 94,3 (1930-1932), al 41 (1984-86). La variazione attuale (in incremento) è dovuta principalmente a malattie infettive presenti prevalentemente nel terzo mondo.
In questo contesto, però, è difficile stabilire la percentuale di “responsabilità” in quanto i fattori contribuenti al manifestarsi di questa problematica, sono diversi.
In circa il 50% degli altri casi, il portatore di infertilità è l’uomo.
Alcuni studi, che vertono sulla produzione di un contraccettivo maschile che non inibisca il desiderio, hanno accennato all’ipotesi, secondo la quale, una sostanza proteica prodotta dal testicolo e chiamata “inibina”, possa bloccare la produzione di spermatozoi. Questa proteina regola la produzione di FSH grazie ad un meccanismo di feedback sull’ipotalamo e sulla ghiandola pituitaria, da essa stessa attivato. Di fatto però, le cause organiche che contribuiscono o determinano la sterilità, sono differenti: il fattore stress psichico e/o mentale ha un importante ruolo sulla risposta fisiologica ormonale.
In conseguenza di ciò, nella donna, l’innalzamento di prolattina e la riduzione dell’LH causano l’anovulazione, ipogonadismo ed amenorrea, mentre, nell’uomo, l’ipogonadismo con un conseguente abbassamento dei livelli di testosterone e gonadotropine.
Anche il tabagismo e l’abuso di sostanze alcoliche, sono determinanti nella riduzione della attività nemaspermica nell’uomo mentre, nella donna, si verifica un effetto antiestrogeno.
Inoltre, alcune esperienze fortemente stressogene quali l’isolamento, la prigionia, l’internamento in campi di concentramento o di guerra, come la storia ed anche la letteratura psicoanalitica testimoniano, comportano una condizione di azoospermia o oligospermia nella condizione fisica maschile.
L’ infertilità invece, è primaria se, dopo un anno (o più) di tentativi di concepimento, non c’è stato alcun esito positivo. E’ secondaria se insorge dopo una gravidanza coronata da successo.
Secondo la Bydlowski, i fattori che ostacolano la procreazione, sono da attribuire ad un’organizzazione inconscia difensiva contro tale eventualità: post- traumatica, nevrotica, come conseguenza di disturbi del comportamento alimentare o di perturbazioni dell’immagine corporea.
L’evento traumatico (un aborto spontaneo o provocato, una morte fetale, una gravidanza extrauterina) o una fantasia legata ad un vissuto interiore, determinato ad una esperienza (uno stupro, la morte della partoriente o quella del bambino) raccontata da altre donne all’interno della famiglia stessa (per es. madre, nonna, zia), sono sufficienti a definire la rinuncia alla maternità.
Gli aspetti nevrotici dell’infertilità sono invece, effetto di un meccanismo d’inibizione alla procreazione conseguentemente ad una fissazione in una fase specifica dello sviluppo psico-affettivo. Inoltre, una relazione fortemente conflittuale tra madre e figlia comporta, come conseguenza inconscia, il “rifiuto” di concepire.
Anche il disturbo alimentare (anoressia, bulimia), preesistente alla scoperta dell’infertilità, che implica una distorsione dell’immagine corporea rappresentata mentalmente, ostacola la capacità di generare.
Con questi presupposti, la possibilità di rendere concreto sul piano biologico e di realtà, la manifestazione del proprio funzionamento fisiologico, viene a perdersi.
Spesso e volentieri, le coppie, sane dal punto di vista organico, restano sconcertate di fronte all’incapacità di attribuire una spiegazione tangibile a questa problematica.
Freud, a proposito della generatività, si riferisce al concetto di “volontà dell’individuo di sopravvivere alla morte”. Il proprio figlio, cioè, viene vissuto come proiezione narcisistica di sé ma anche, come attestazione del proprio funzionamento fisiologico e biologico che permette la continuità della specie.
Nel contesto sociale, il figlio dà conferma della propria identità sessuale.
La fase della “generatività” di cui parla Erikson, si manifesta attraverso la nascita e la crescita dei figli.
L’essere umano si contraddistingue infatti, dalle altre specie poiché, la sua capacità fecondante, è contraddistinta da una forte connotazione psicologica ed assume anche un profondo significato sociale. Con la maturità sessuale (evento puberale) emerge la fantasia riguardo alla procreazione. Questa capacità, principalmente legata al proprio genitore durante l’infanzia diviene, in seguito, una consapevolezza ed un desiderio dell’adolescente sessualmente maturo. È proprio durante tale periodo che l’individuo ottiene ulteriori conferme della propria identità di genere (maschio e femmina) e il ruolo (maschile e femminile).
Il desiderio di un figlio e la successiva realizzazione, sul piano di realtà, di questa iniziale fantasia, diviene in età adulta, una conferma della propria capacità rigenerativa ridefinendo la propria identità di genere. Questo vale sia per la donna che per l’uomo.
La gravidanza quindi, assume una sorta di segnale di prestigio.
Il bambino rappresenta la continuità, il significato dell’esistenza umana ma, nel caso in cui vi è impossibilità a concepire, viene a mancare.
È importante che la coppia elabori sul piano personale le componenti emotive legate al lutto della infertilità, concedendosi un’ulteriore e significativa possibilità di vivere la splendida esperienza legata alla genitorialità.


Riferimenti bibliografici

Ameruoso E. (2006). L’esperienza adolescenziale in coppie portatrici di infertilità psicogena: un’ipotesi di ricerca. II Scuola di Specializzazione dell’Università “La Sapienza”. Roma: Tesi di Specializzazione.
Ammanniti M. (1993). Gravidanza e percezione del sé. In Maternità e Tossicodipendenza (a cura di) Malagoli Togliatti M., Mazzoni S. Milano: Giuffrè.
Bydlowski M. (2003). Facteur psychologiques dans l’infertilité feminine. In Gynécologie Obstétrique & Fertilité, 31: 246-251.
Morelli G. (1996). Il ruolo dei fattori psicologici nell’etiopatogenesi dell’infertilità maschile, In Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, 28/29: 45-48
Scatoletti B. (1996). Aspetti psicologici nella diagnosi e cura dell’infertilità di coppia: una rassegna della letteratura rec

giovedì 10 giugno 2010

Bullismo, dai luoghi comuni alle azioni efficaci

Articolo a cura del Dott. Zenilli pubblicato su Benessere4u.it , il social network su salute e benessere psicologico.

L'articolo, a partire da alcuni luoghi comuni sul bullismo, descrive alcune caratteristiche del fenomeno e alcune delle azioni ritenute più efficaci per contrastarlo.

benessere4u.it  bullismo


Ad un incontro sul bullismo aperto ai genitori e insegnanti qualche anno fa, in un piccolo Comune del Nord Italia, si alzò un signore e chiese di che cosa in realtà si stesse parlando, i prepotenti in fondo ci sono sempre stati e di prepotenze se ne compiono ogni giorno. Secondo questo signore la soluzione sarebbe stata molto semplice, insegnare a tutti i bambini perseguitati a fare a pugni e se non ne fossero stati capaci allora pazienza, dopotutto vanno avanti solo i più forti.

“Cos’è per voi il bullismo?” abbiamo chiesto anche ai ragazzi nelle scuole? “É quando uno si crede più grande e se la prende con i più piccoli” è stata una delle risposte, oppure “quando uno è simpatico e fa gli scherzi, allora gli dicono “er bullo” è stata un’altra. In un incontro in classe, una prima media, durante un primo giro di opinioni venne fuori che il bullo è anche un personaggio simpatico, che fa ridere e che in fondo si da solo un po’ di arie, insomma “er bullo”. In un’altra occasioni mi ritrovai in una classe terza di una scuola media della provincia di Milano per parlare di bullismo e già dalla disposizione dei banchi ebbi l’impressione che qualcosa non andava. C’era una ragazzina in quella classe, guance paffute, occhiali e lunghi capelli lisci. Nello sguardo però nascondeva un misto fra tristezza e rabbia, e lo dimostrava pungolando e provocando chiunque le capitasse a tiro, con un sorrisetto di soddisfazione che si tramutava in un’espressione imbronciata quando sistematicamente per reazione veniva esclusa e isolata dall’intero gruppo classe. Mentre tutti i banchi erano sistemati a coppie, il suo era l’unico da solo, attaccato a quello dell’insegnante come un satellite alla deriva. Era talmente detestata dai suoi compagni di classe che tutti si rifiutavano di toccarla e una volta disposti in cerchio nessuno volle mettersi al suo fianco tant’è che attorno a lei ci fu il vuoto. Alla fine del’incontro mi feci raccontare da lei come viveva tutto questo e la ragazzina scoppiò in lacrime dicendo che quello era il periodo più brutto della sua vita, che non aveva amici, che tutti la odiavano e che l’unica cosa che la teneva viva era la speranza che l’anno successivo, in una nuova scuola e con nuovi compagni di classe le cose, chissà, magari sarebbero cambiate. L’insegnante parlandomi di lei mi riferisce che si è inserita a metà dell’anno nella loro scuola e che da subito ha mostrato segni di insofferenza verso i suoi compagni di classe con atteggiamenti provocatori e dispettosi. A mano a mano è stata quindi allontanata e ciò che le stava capitando, secondo l’insegnante, era tutto sommato la conseguenza delle sue azioni. Arriviamo poi a parlare dei recenti fatti di cronaca, l’aggressione del ragazzino di 12 anni ferito alla milza da due compagni di scuola a Crotone; lo studente disabile di Torino, deriso e picchiato dai compagni che lo riprendevano col telefonino; la ragazza marocchina di 17 anni perseguitata a scuola fino al punto di scappare di casa e scomparire per tre giorni.

Questi sono solo alcuni dei casi recentemente portati alla ribalta nelle cronache dei quotidiani. Ma il fenomeno del bullismo non deve preoccupare solo quando diventa tragedia di portata nazionale perché in realtà nella maggior parte dei casi esso c’è ma non si vede. Qualcuno spiega il fenomeno mediante le teorie sulle famiglie sbandate e qualcun’altro responsabilizza la scuola che non insegna più certi valori. Vediamo quindi di capire di cosa si tratta e cosa si può fare per riconoscerlo e intervenire. Intanto, per cominciare, la definizione: “il bullismo è un’azione che mira deliberatamente a fare del male o a danneggiare. Spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittima”.

Da qui le tre regole d’oro per distinguere tale fenomeno da altre forme di comportamento aggressivo e dalle semplici prepotenze:

1. il comportamento aggressivo, fisico, verbale o psicologico, viene messo in atto volontariamente e consapevolmente, con l’intenzione di arrecare danno;

2. sebbene anche un singolo episodio può essere considerato una forma di bullismo, in genere il comportamento aggressivo viene messo in atto più volte e si ripete quindi nel tempo;

3. tra il bullo e la vittima c’è una differenza di potere, dovuta alla forza fisica, all’età o alla numerosità quando le aggressioni sono di gruppo, la vittima quindi spesso non è in grado di difendersi.

Da queste semplici indicazioni potremmo rispondere ad alcuni tra i luoghi comuni più diffusi sul bullismo, alcuni dei quali già espressi sopra, secondo i quali ad esempio: “la vittima deve imparare a difendersi” (come abbiamo visto però la condizione non è di parità ma di disuguaglianza quindi chi subisce non può o non sa come difendersi) oppure “certe volte le vittime se lo meritano” (in questo modo quindi si legittima il bullismo come forma di giustizia nei confronti di chi da noia) o infine “non era una prepotenza, era solo una ragazzata” (questo è un buon metodo per rinforzare il comportamento aggressivo che oltre a non essere punito viene anche valutato simpaticamente come lo studente di prima quando citava “er bullo”).

A proposito della frase “il bullismo c’è ma non si vede”, molti sono i casi in cui si crede che nella scuola in cui si insegna o in cui si manda il proprio figlio queste cose non possano avvenire. Questo accade perché si crede erroneamente che l’unica forma di bullismo sia quella fisica. In realtà oltre a questa, che gli esperti inseriscono nel bullismo diretto e che comprende azioni come picchiare, spingere, far cadere, calciare ecc. ne esistono altre. Nel bullismo verbale, forma sempre diretta, si utilizza la parola per recare danno alla vittima, ad esempio con offese o prese in giro insistenti e reiterate. Nel bullismo indiretto invece attraverso comportamenti non direttamente rivolti alla vittima, si giunge alla sua esclusione e al suo isolamento attraverso la diffusione ad esempio di pettegolezzi e dicerie oppure al rifiuto continuato di esaudire le sue richieste. Mentre il bullismo fisico è prevalente fra i maschi, quello indiretto lo è fra le femmine mentre quello verbale coinvolge tutti e due i sessi allo stesso modo. Con l’aumentare dell’età e del grado di scuola si passa da forme dirette a forme indirette di bullismo. Che fare allora? Il bullismo è un fenomeno sociale e complesso e per essere compreso e affrontato è necessario un intervento che si rivolga a tutti i suoi protagonisti. Esistono diversi progetti di prevenzione al bullismo nelle scuole che prevedono la formazione degli insegnanti, si può prevenire il bullismo introducendo metodi didattici di tipo cooperativo, prevedendo percorsi di educazione affettiva, sostegno psicologico alle vittime, modelli di supporto fra pari. Le famiglie dal canto loro devono abbandonare ogni atteggiamento di delega e collaborare attivamente alla costruzione di una scuola a misura di ragazzo, colloquiando con gli insegnanti e stimolando un confronto sul grado di benessere dei figli oltre che sul livello didattico raggiunto. Vanno rinforzati, inoltre, tutti i comportamenti a favore della socialità con riconoscimenti di tipo affettivo, verbale e non solo materiale. Particolare attenzione va data a tutti quei segnali che potrebbero essere indicatori del problema: eccessiva timidezza, mancanza di amicizie significative, rifiuto di andare a scuola, isolamento nelle ore di ricreazione, richieste continue di denaro senza spiegazioni, sintomi psicosomatici (mal di testa, mal di pancia..) fino a segni evidenti e ripetuti di lotta (lividi, graffi..). Si dovrebbe evitare di bersagliare i figli di domande indiscrete e imbarazzanti, si potrebbe tuttavia aprire il discorso raccontando storie e aneddoti magari legati ad esperienze personali. L’importante è far sentire che se ne può parlare ed evitare di esprimere giudizi che inibirebbero il ragazzo o la ragazza. Purtroppo, o per fortuna, il bullismo non riguarda solo due persone che non si sopportano ma l’intero tessuto sociale che li circonda ed è solo agendo su questo che il fenomeno e non solo il singolo problema (che ne è solo la manifestazione) si potrà prevenire prima che diventi un fatto di cronaca.


BIBLIOGRAFIA
SHARP S., SMITH P.K. (1995), Bulli e prepotenti nella scuola. Prevenzione e tecniche educative, Erickson, Trento
D. OLWEUS (1996) “Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono” Giunti, Firenze.
E. MENESINI (2003) “Bullismo: le azioni efficaci nella scuola” Erickson, Trento.
A cura di NICOLA IANNACCONE (2005) “Stop al bullismo. Strategie per ridurre i comportamenti

martedì 8 giugno 2010

TSO alle madri in baby blues? Ma mettiamoci chi ha fatto questo proposta!

Dopo il tragico evento di Passo Corese la Sigo (Società Italiana Ginecologia e Ostetricia) propone un TSO per le madri con Depressione Post-Partum. Ma a questo punto riapriamo direttamente i MANICOMI, mettiamole in stanze con le sbarre alle finestre... Così si evitano tragedie analoghe! CHE AMAREZZA!!!! Invece di sparare queste proposte offensive e medioevali, sarebbe invece opportuno stanziare più risorse economiche per i servizi di welfare mirati a fornire sostegno alla famiglia ed alle neo-mamme. Valorizzare le figure professionali deputate, ad esempio lo PSICOLOGO, investire sulla famiglia invece di disgregarla e dilaniarla, lasciando da sola ...la donna. Questo paese è capace solo di soluzioni mostruose e propaganda emotiva.

Sostieni la rivolta contro questa proposta medioevale che la Sigo (Società
italiana di ginecologia e ostetricia) sta presentando al Ministero della Salute! Mettiamoci i proponenti in TSO (terapia sanitaria
obbligatoria)! Alle Madri servono supporto, servizi e professionalità,
non delle sbarre ad una finestra! Un paese senza vergogna!!!

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